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Mario Dalmaviva, una «Idea» sotto forma di racconto

Mario Dalmaviva, una «Idea» sotto forma di raccontoUna vignetta di Dalmaviva

Il testo Scritto a Rebibbia, ritrovato tra la sua corrispondenza, una storia fantascientifica, dai risvolti attuali e preveggenti, seguita da una nota di Teresa Dalmaviva

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 11 aprile 2020

Il dito nel naso continuava con metodo la sua ricerca mentre il colonnello Aldo Aceto ascoltava paziente le giustificazioni del suo interlocutore telefonico, Alla fine sbottò.

«Senta Marini io debbo consegnare entro questa sera il calendario dettagliato delle trasmissioni televisive sugli incontri del Mundial 82… No, non m’importa se l’ordine di servizio è ancora riservato, riservato e anche irascibile è il Capo di Stato Maggiore che vuole la relazione. Oppure è necessario che telefoni direttamente lui al Presidente?»

Finalmente l’altro si arrese, entro le 16 avrebbe avuto il palinsesto direttamente al Ministero alla sua attenzione.
L’ufficiale si rovesciò all’indietro sulla poltroncina socchiudendo gli occhi ed arrotolando ostinato fra indice e pollice la preda. La domanda ritornava insistente a stuzzicare la sua lineare logica piemontese. «Perché mai da due mesi gli alti papaveri degli Stati Maggiori erano stati presi dall’incontenibile curiosità sul calcio e sui prossimi campionati mondiali?».

A lui, addetto alle Pubbliche Relazioni malgrado l’aspro ed allappante cognome, era toccato contattare, lusingare, cenare, ascoltare i variopinti personaggi addetti ai lavori. Il più delle volte con malcelata noia. Poi la rottura di tradurre le informazioni nel gergo burocratico delle relazioni ministeriali. Inutilmente aveva annusato in giro invece di un perché, nessuno ne sapeva niente.
Di colpo gli venne in mente Silvia e riprese il ricevitore in mano. «Mi passi l’Istituto Superiore di Sanità, interno 77» sibilò all’imbranata telefonista.
«Pronto, Silvia, senti avrò da fare per tutto il pomeriggio, una seccatura imprevista. Sarò da te alle otto e partiamo direttamente per il mare. Al portoncino del laboratorio, certo, sii puntuale mi raccomando!».
Per qualche istante pensò di buon umore al tranquillo weekend poi riprese ad occuparsi degli impegni di routine.

A sera mentre zigzagava nel frenetico traffico rifletteva, come gli succedeva sovente, sul rapporto con Silvia. Una relazione piacevole e sufficientemente movimentata da evitare il rischio della noia. Ed importante anche, malgrado fosse riluttante ad ammetterlo.

Si accorse di aver superato il luogo dell’appuntamento e con un’improvvisa svolta a U ritornò indietro accompagnato da urlacci densi di epiteti.
Silvia era già lì e passeggiava nervosa per chissà che.
Capì il motivo lungo l’autostrada su cui viaggiavano a velocità moderata gustando il piacere di stare assieme nel buio della notte.

Dal Canada – raccontava Silvia – hanno denunciato la presenza di un focolaio di nuovo virus influenzale con caratteristiche inedite. Elevata possibilità di contagio, alta velocità di diffusione, due giorni di incubazione poi il soggetto colpito era KO per due settimane. Febbre, vomito, gola irritata ed una accentuata e pericolosa debilitazione generale dell’organismo erano i sintomi che svelavano la malattia.

Un disastro se non si fosse riusciti ad arrestarne rapidamente la propagazione, ma fino ad ora non era stato individuato alcun vaccino efficace.
L’equipe di medici e biologi in cui lavorava Silvia era stata rafforzata e proseguiva le ricerche strettamente coordinata con l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Al seguito Aldo non prestò più attenzione, s’era distratto ma non voleva interrompere lo sfogo perché sapeva che questo l’avrebbe calmata. Poco prima del paese si fermarono ad una trattoria dove erano conosciuti e si fecero preparare due cene fredde che si portarono via. Un’abitudine che avevano preso perché piaceva ad entrambi arrivare a notte nel piccolo alloggetto, fare l’amore e poi, rilassati, cenare sull’ampio terrazzo che guardava sul mare. Sovente restavano a lungo in silenzio, senza alcun imbarazzo, ad ascoltare la risacca lasciando i pensieri a ruota libera.

Il mattino successivo sulla spiaggia Aldo scorreva i giornali accomodato sulla sdraio a pochi metri dall’acqua. Il solito pastone di notizie da cui filtrava la crisi che percorreva il Paese. Lesse con attenzione l’articolo sullo sconfinamento di un aereo militare straniero e l’avvistamento di un sottomarino sconosciuto che era capitato nelle reti di un malcapitato peschereccio. Poi il giornale scivolò sulla sabbia perché si era addormentato. Si risvegliò sotto un sole già alto un poco scottato e raggiunse Silvia che nuotava verso di lui.

L’opprimente lunedì mattina il colonnello camminava svogliato verso il Ministero rimasticando con nostalgia i due giorni appena trascorsi. D’un tratto, per uno strano meccanismo mentale, la domanda che l’aveva perseguitato per tanti giorni si ripresentò sotto forma di un’inedita ipotesi: «E se fosse in preparazione un colpo di stato per il Mundial…?».

L’enormità della cosa lo costrinse a fermarsi mentre, come richiamati sul visore di un terminale, gli sfilarono davanti agli occhi in rapida successione una serie di fatti e di interrogativi, fra i quali non aveva stabilito prima alcun legame.
«Fatti furbo – si disse prendendo fiato – stai diventando ipocondriaco». Però affrettò l’andatura, ansioso di ritrovarsi nella calma dell’ufficio per riflettere. Salutò distrattamente il piantone e i i colleghi. Arrivato alla scrivania, avvisò il centralino di rispondere alle chiamate dicendo che era fuori stanza.

Il colonnello Aceto non si era mai occupato di politica pur tenendo gli occhi aperti su quanto avveniva in quegli anni nell’effervescente società italiana. Ventidue anni di carriera militare l’avevano d’altro canto convinto che se affidare la guerra ai militari era già un grosso azzardo, consentire loro di occuparsi di politica era un suicidio sicuro, senza per questo dare particolare credito ai politici. Si considerava un «militare laico», per usare un termine corrente, ma questo non lo aiutava a risolvere il problema che si trovava di fronte. Fece appello alle sue capacità di razionalizzare e s’impegnò nella stesura di una scaletta delle informazioni da ricercare per avere un minimo di supporto sulla fondatezza delle sue intuizioni.

Doveva documentarsi sulle riunioni di alti ufficiali avvenute negli ultimi due mesi, sugli scritti e sui discorsi ufficiali che già aveva scorso distrattamente per il suo lavoro, sulle manovre militari effettuate e su quelle ancora in corso e poi da questo quadro tentare di estrarre il senso delle sue ricerche sui Mondiali di calcio.

Per le notizie sulla situazione politica fissò un appuntamento con un certo Molino, giornalista parlamentare e pozzo senza fondo di pettegolezzi sul mondo politico.

Lasciò per ultima la cena con Carlo, un suo vecchio compagno di corso all’accademia, con cui aveva mantenuto una calda amicizia. Impossibile che lui, quotato e intelligente ufficiale dei «servizi», non sapesse se qualcosa bolliva in pentola.

Sistemò Silvia fino alla settimana successiva con la scusa di una trasferta per motivi di servizio e si mise al lavoro.

Trascorse quattro giorni di attività frenetica alla ricerca di informazioni, attento a non dare nell’occhio. Il venerdì tentò un bilancio, ma i dati non perdevano la propria ambiguità prestandosi a diverse interpretazioni.

C’era stata sì nei mesi scorsi una inconsueta attività in certi «circoli» militari ma non così evidente ed anomala da legittimare sospetti. Dalle prese di posizione ufficiali si rivelava il consueto disagio nelle Forze Armate e la richiesta di contare di più nelle scelte del Paese, ma anche questo era un ritornello abituale.
Manovre ed operazioni di ordine pubblico si erano intensificate nell’ultimo periodo ma plausibilmente la causa poteva risiedere sulla situazione internazionale e interna. Le tensioni erano all’ordine del giorno su entrambi i fronti.

Doveva far leva su un punto se voleva entrare in possesso di qualche elemento in grado di chiarirgli le idee. Decise di puntare su Carlo, bluffando nel dimostrarsi a conoscenza delle trame seppure a grandi linee. Poi, in base alle sue reazioni, avrebbe deciso come comportarsi.

Venerdì sera quando entrò con l’amico nel ristorante alla moda i tavoli erano quasi tutti occupati. Il brusio delle chiacchiere era tale da garantire meglio di un separè la riservatezza su quanto avrebbero detto.

Aldo era teso, consapevole di dover giocare contro un professionista allenato a valutare le persone ed a sostenere il gioco delle parti. Non era in grado di stabilire a priori quanto l’amicizia avrebbe giocato a suo favore, dipendeva dalla posta in gioco e dal ruolo che Carlo si sarebbe scelto.

Ordinata la cena, si lasciarono andare, com’era d’abitudine ogni volta che s’incontravano, ad alcuni piccanti pettegolezzi su amici comuni. Poi Aldo, alle prime forchettate dell’antipasto, decise di rompere gli indugi e di entrare nel merito della questione che gli premeva.

«Che cosa sta succedendo negli Alti Comandi, Carlo?» attaccò senza mezzi termini. L’altro non si scompose e guardandolo fisso gli rimandò la palla: «Tu che cosa sai?. Niente giri di parole, pensò Aceto decidendo per l’affondo. «Prove niente, ma ho messo insieme una quantità di indizi significativi e convergenti su una manovra antistituzionale in atto in cui sono coinvolti anche alcuni ufficiali».

È fatta, si disse. Di qui in avanti bisogna procedere su di un terreno minato. Carlo taceva fingendo un interesse spropositato per il cibo, segno che stava prendendo una decisione difficile, ne dedusse Aldo attrezzandosi per sostenere il silenzio.

«Va bene – sbottò quello all’improvviso – ma è inteso che noi non siamo stati qui questa sera né ci siamo incontrati in quest’ultimo periodo».
Aspettò un cenno di assenso e proseguì. «Sai che i complotti ideati, tentati o realizzati sono diventati uno sport in voga in questi ultimo dieci anni qui da noi. I pochi realmente pericolosi sono sempre stati neutralizzati, a volte all’ultimo minuto. Non uso la parola golpe perché sarebbe fuorviante e suggerirebbe un’immagine sudamericana inapplicabile in Italia. Nessuno che non sia folle cova progetti di Governi Militari, l’idea ricorrente è piuttosto quella di sbloccare traumaticamente una situazione politica immobile attraverso modifiche istituzionali del tipo Repubblica Presidenziale. Il meccanismo ormai lo conosciamo, è quasi fisiologico: uno dei tanti centri di potere occulti disseminati nel Paese, per circostanze politiche e capacità soggettive, diventa più forte degli altri e calamita adesioni e complicità solleticando ambizioni di guadagni, carriera, potere, status sociale. Se questo gruppo diviene in grado di resistere alla guerra dei concorrenti e continua a svilupparsi, è probabile che ad un certo punto si faccia prendere dall’ambizione di dire la sua anche sull’aspetto istituzionale. Da quel momento la ricerca di contatti si fa selettiva, funzionale al «Grande Progetto». Servono anni di accumulo e di consolidamento dei rapporti e l’attesa del deterioramento di condizioni politiche favorevoli. A volte forzano il quadro con l’attuazione di azioni tendenti a promuoverle traumaticamente».

Il tono era un poco pedagogico, ma Aldo era talmente interessato che evitò la tentazione di una battuta di spirito che rischiava di bloccare il discorso. «Da circa un anno stiamo seguendo un di questi clan che nell’ultimo periodo si sta agitando in modo piuttosto scomposto. È molto potente e infiltrato dovunque anche da noi. Lo abbiamo messo in ’evidenza’ come diciamo noi in gergo. Niente di più».

L’ultima frase era stata detta con un tono che lasciava chiaramente intendere che da quella parte non avrebbe saputo più nulla, né nomi o dettagli né soprattutto da quale parte fosse schierato Carlo.

Per scrupolo e per dividere le responsabilità Aldo mise al corrente l’amico della strana richiesta di dati calcistici di cui si era dovuto occupare.
Al momento di lasciarsi gli arrivò una raccomandazione che aveva un sapore chiaramente minaccioso.

«Senti Aldo, ho accettato di parlarti perché conoscendo la tua testardaggine sono sicuro che, se non l’avessi fatto, ti saresti messo nei guai e grossi per di più. Ti sei imbattuto in gente pericolosa perché ha molto da perdere, lascia fare a noi che siamo del mestiere. A proposito – lasciò cadere – sai che la ragazza che frequenti era stata implicata ai tempi dell’università in vicende poco chiare con dei gruppettari di sinistra? Beh, ciao». Lo salutò senza dargli il tempo di replicare.

Rientrando a casa cominciò a percepire la spiacevole sensazione di sentirsi osservato. Il giorno dopo telefonò in ufficio ed accampando una scusa qualsiasi giustificò la sua assenza.

Trascorse il fine settimana chiuso in casa alla ricerca di una soluzione a quella che gli sembrava una soluzione senza uscita. Aveva ormai una ragionevole sicurezza che si stesse tramando qualcosa di grosso ma senza alcun dato certo, una data, un nome, un appuntamento, una riunione. Nulla. Né c’era alcuno con cui potersi confidare sulla base di elementi che sarebbero apparsi niente più che vaghe illusioni, inammissibili in bocca di un ufficiale del suo grado. Per la prima volta in vita sua sentì che l’impotenza era vicina a trasformarsi in disperazione.

La domenica sera per distrarsi decise di andare a vedere un film da solo. Incappò in una riedizione de I tre giorni del condor, una contorta storia di guerre intestine tra fazioni di un Servizio Segreto. Quando uscì dal cinema era ben deciso a partire l’indomani con il primo volo internazionale quale che fosse la destinazione.

Invece superata bene o male la notte il giorno successivo, puntuale alle 9 era seduto dietro la sua scrivania. La sera, malgrado lo stato d’animo, si sentì in obbligo di uscire con Silvia che lo tormentò per tutto il tempo con domande sul suo umor nero, sospettando chissà quali avventure dietro la sua assenza di una settimana.

Fu il mercoledì che il caso entrò in scena. Stava depositando la quotidiana rassegna della stampa sul tavolo di un maggiore aiutante di campo, allorché questi nel rispondere al telefono fece cadere a terra il fascicolo di una relazione che gli era famigliare perché ne era l’autore. La pagina su cui si era aperta presentava in un ordinato diagramma il calendario delle partite del prossimo Mundial. Due vistosi cerchi rossi circondavano due caselle la cui posizione si fissò fotograficamente nella memoria. Raccolse la cartella e l’ufficiale al telefono si scusò con un distratto sorriso. Nessuno aveva notato il colonnello inchinato davanti ad un maggiore e poi era noto che il grado di un addetto stampa contava meno.

A fatica riuscì a impedirsi di correre a controllare quali fossero le date, le località e gli incontri che corrispondessero alle posizioni cerchiate. Sorrise fra sé nel constatare quanto fosse diventato diffidente e terminò il suo solito giro di consegne.

Barcellona 28 o 29 giugno sottolineato il primo incontro della Nazionale. La sfasatura di un giorno dipendeva dall’esito delle partite della prima fase. Barcellona giovedì 8 luglio la semifinale. Era evidente che nelle previsioni di chi aveva cerchiato la scelta l’Italia non sarebbe andata in finale. Tutte e tre le trasmissioni televisive andavano in onda alle 21 e gli indici di ascolto sarebbero stati sopra 90, cioè tutta l’Italia sarebbe stata davanti ai televisori. Niente traffico, sede partiti e sindacati deserte, comunicazioni rallentate e ognuno reperibile nella sua casa o in quella di amici. Una combinazione quasi ideale di fattori. Nel leggere la parola stadio rivide le cupe immagini cilene. Solo per un attimo fu assalito dal dubbio che quelle evidenze fossero il promemoria per una pacifica serata in casa.

Scartò l’idea di comunicare la scoperta a Carlo, se anche lui fosse stato coinvolto lo avrebbe rapidamente messo in condizione di non nuocere. Doveva cavarsela da solo, ma come? Le tre date erano spaventosamente vicine e non poteva permettersi di avere altre e più sicure conferme.

Visse i due giorni successivi in quello stato irreale di distacco dalle cose che procura la certezza di un dramma incombente ed inevitabile. Le soluzioni più assurde e fantasiose continuavano a ripresentarsi per nulla dissuase dai brandelli di razionalità di cui ancora disponeva.

Venerdì 28 maggio (sempre il venerdì, si trovò a pensare più tardi mentre intingeva il maritozzo nel cappuccino mattutino) venne l’IDEA. Delirante, inattuale, fantascientifica ma finalmente un’idea. Avrebbe impedito lo svolgimento del Mundial. Si accorse della pelle d’oca quando il barista gli chiese se stesse male, vedendolo impallidire di colpo.

La giornata trascorse normalmente anche nell’abituale telefonata a Silvia per accordarsi per il fine settimana. La trovò imbronciata e restia, ma dal suo tono di voce lei capì che questa volta non era il caso di farsi pregare.

Sabato mattina non erano sulla spiaggia ma stavano discutendo animatamente sul terrazzo. Una conversazione animata iniziata la sera prima e proseguita per tutta la notte. Tranne che per alcuni brevi ma intensi intervalli. Aveva faticato non poco a convincerla, dopo averle proposto per sommi capi i termini del problema, che lei era la soluzione. Lei ed il suo virus canadese.

Impiegarono i due giorni a definire, dettaglio per dettaglio, tutti i particolari dell’operazione. La quantità di virus da asportare dal laboratorio, le precauzioni per garantire che rimanesse attivo per l’intero viaggio, il numero delle confezioni e la forma per fargli attraversare senza sospetti la dogana, i punti attraverso cui il contagio dell’influenza si sarebbe diffuso più facilmente. La divisione dei compiti fra loro due.

Avrebbe volentieri evitato di portare Silvia in Spagna con sé, ma non poteva fare a meno della sua competenza se si fossero verificati imprevisti. Si sarebbero imbarcati sul volo di martedì mattina per Barcellona. I biglietti erano già stati prenotati. Giovedì sera il rientro.

Mentre saliva la scaletta dell’aereo si stava ancora domandando se sarebbe stato considerato un salvatore della patria o il primo terrorista batteriologico della storia. Probabilmente non l’avrebbe mai saputo, fu la conclusione mentre cominciava a sentirsi addosso qualche linea di febbre.

 

***

 

Nei primi mesi del 1981 il Manifesto pubblicherà quotidianamente in prima pagina la vignetta della cella parlante con cui Mario Dalmaviva, detenuto dal 1979 come imputato nell’inchiesta del 7 aprile, interloquisce con l’esterno durante i 90 giorni del suo sciopero della fame.
A partire da quel momento, Viva diventerà una firma riconosciuta ed accreditata nel mondo del fumetto e della satira, e Mario dal carcere collaborerà in modo continuativo con la rivista Linus ed altre testate.
L’IDEA è un racconto breve di fantasy, commissionato nel 1982 da Cinzia Scaffidi direttrice della rivista « il discobolo» dell’Arci-Sport. Ho ritrovato tra la corrispondenza di Mario il dattiloscritto con correzioni autografe in rosso, stilato prima del Mundial di Barcellona durante la sua permanenza nel carcere romano di Rebibbia. Il dattiloscritto non ha titolo, ma nel testo la svolta della storia viene annunciata con la parola L’IDEA scritta in caratteri maiuscoli, e questo mi ha suggerito di proporla in calce al racconto.
Oggi, marzo 2020, tempo in cui il fenomeno «Coronavirus-19» sta monopolizzando l’informazione, lasciandoci confusi in mezzo alla marea incontrollabile di opinioni e comunicati, istituzionali e non, che ora dopo ora ci sommergono, mi spingerebbero ad azzardare come ugualmente appropriato come titolo “VAIRUS“. A voi la scelta.
(Teresa Dalmaviva, Perinaldo, 5 marzo 2020)

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