Mario Cresci, le reinvenzioni biografiche di un etnografo artista
Scaffale Il suo libro «Matrici», edito da Mimesis, sarà presentato a Bookcity il 18, nel Castello Sforzesco di Milano. A cura del poeta Stefano Raimondi, nela sua forma si ispira agli «scaraboti» di Canaletto, schizzi da cui originavano disegni e opere
Scaffale Il suo libro «Matrici», edito da Mimesis, sarà presentato a Bookcity il 18, nel Castello Sforzesco di Milano. A cura del poeta Stefano Raimondi, nela sua forma si ispira agli «scaraboti» di Canaletto, schizzi da cui originavano disegni e opere
Il nuovo libro di Mario Cresci – Matrici. L’incertezza del vero, curato per Mimesis dal poeta Stefano Raimondi (pp. 216, euro 18) – nella forma è ispirato agli scaraboti di Canaletto: schizzi su un quaderno, con matita nera, poi inchiostro e penna, ripassati e ridisegnati in dettaglio, schizzi che a Canaletto servivano da matrici prospettiche funzionali per i dipinti. In senso figurato, matrice è anche ciò che costituisce l’origine, l’elemento ispiratore, la genesi di uno sviluppo creativo.
In questo suo nuovo esperimento Cresci ha deciso di invertire il processo di Canaletto, reinterpretando alcune tra le sue più note immagini/matrici in segni/disegni da accostare alla propria biografia. Cresci re-insegue sé stesso al passato. Nel 2022 ha compiuto ottant’anni, e ottanta sono le fotografie che l’autore ci induce a re-immaginare. L’inserimento di un QR code, alla fine del libro, consente al lettore di raggiungere le immagini/matrici da cui nascono i disegni.
Il lettore è costretto a guadagnarsi la storia narrata da Cresci, il cui accesso non è scontato, quindi meno che mai illustrativo. Però – prima di fare le nostre ipotesi sulle intenzioni dell’autore – siamo sollecitati alla ricomposizione dei pezzi. Mentre sulla Terra viviamo il futuro di un popolo che ha rinnegato il proprio passato, Cresci testimonia che, prima dell’arte, la vita si mescola con la ricerca e diventa educazione, foglio del mondo, per citare Carlo Sini. Foglio del mondo o metafora della nostra sensorialità, percezione depositata in uno spazio tra il metà fuori e il metà dentro.
Non solo il vedere conta. Cresci proviene da una cultura mista, progettuale, dal design con un debole per le avanguardie storiche degli anni Sessanta. È stato anche uno degli allievi di Italo Zannier, tra i prediletti al Corso superiore di design a Venezia. Questo esperimento educativo, dismesso negli anni Settanta, prendeva ispirazione dalla Staatliches Bauhaus, procedendo per laboratori e privilegiando le arti e i mestieri.
Cresci – da lì in poi – ha seguito una strada personale e atipica. Nel 1972, in un’emigrazione al contrario, ha preferito andare a vivere a Tricarico, un piccolo paese vicino Matera. A Tricarico ha affiancato alcuni amici architetti, sociologi ed economisti invitati a collaborare al piano regolatore. Il suo scopo non era stato documentaristico – se lo è diventato è per statuto della fotografia – sebbene le sue immagini non si discostassero da quell’asse frontale nella visione, che prevedeva la dignità del soggetto, raffreddando così qualsiasi fascinazione adorante tipica di un certo fotoreportage di quel periodo. Nella sua ricerca, Cresci aveva preferito una riflessione antropologica oltreché metalinguistica. Una sintesi – a prima vista – antitetica: tra il sorgivo Ugo Mulas, quello delle Verifiche, e una sistematica attrazione per gli studi antropologici di Ernesto De Martino. Etnografo e artista concettuale, Cresci si discosta dalla visione strettamente modernista: sempre teso verso una libera espressione, è in leggero conflitto proprio con l’epopea del fotografo.
GLI «SCARABOTI» DI CRESCI in un triplo salto mortale ricostruiscono il luogo, le identità, bucano la bidimensionalità della superficie, aprono alla circolazione, allo scambio, e come diceva Rimbaud, ci guidano verso «la più semplice espressione».
Emblematica è la storia della contadina, protoartista e pioniera di molte opere contemporanee. La donna era rimasta a Tricarico, mentre il marito lavorava a New York; ogni tre mesi si faceva ritrarre con i suoi figli, vestita a festa, davanti a un fondale con palme e cammelli, in bianco e nero. La famiglia di Matera si metteva in posa, lo sguardo fisso in camera.
La donna lasciava uno spazio vuoto tra sé e i figli: lo spazio destinato al marito che, a New York, si vestiva a festa e si faceva fotografare in scala. Il marito – dopo avere ritagliato la propria figura – si incollava nello spazio lasciato libero dalla moglie e – a conferma di qualsiasi incertezza del vero implicita in ogni immagine – la moglie non dimenticava di ricordare al lettore-spettatore: «Mio marito, in fondo, è un poco imbroglione (…) perché lui si fa fotografare come se fosse più alto di me, mentre in realtà è più piccolo».
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