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Mario Capecchi, immaginazione al potere

Mario Capecchi, immaginazione al potere

La masterclass Al teatro Petruzzelli nell'ambito del Bifest di Bari, il premio Nobel Mario Capecchi ha parlato di dialogo tra arte e scienza, pragmatismo, e altro ancora

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

Non è certo usuale trovarsi la domenica mattina in una sala strapiena venuta ad ascoltare degli scienziati: il magnifico teatro Petruzzelli ha accolto al Bifest di Bari (25 marzo – 2 aprile) il premio Nobel Mario Capecchi in dialogo con Carlo Doglioni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. L’occasione è stata l’anteprima di Hill of Vision di Roberto Faenza ispirato alla drammatica infanzia del prof. Capecchi, bambino rimasto solo durante la seconda guerra mondiale, deportata in campo di concentramento la madre americana poetessa venuta in Italia a combattere il fascismo, in guerra il padre fascista della prima ora. Il piccolo Mario affidato a contadini altoatesini li lascerà quando non potranno più occuparsi di lui per paura di rappresaglie e si avvierà a poco più di sei anni verso l’ignoto alla ricerca dei genitori.

Come in un incubo già vissuto altre volte, ma seguendo le vie del cinema più che quelle di una ricostruzione realistica, il film si inoltra in luoghi rivisitati a una certa distanza, frammenti di scene di film stratificati nella memoria, quasi ammorbiditi dalla lontananza, attraverso il ricordo degli sciuscià, di Dickens e perfino di Gianburrasca. La guerra che oggi vediamo solo in tv, nonostante sia alle porte, genera un bisogno di happy end ed eccolo avverarsi: nonostante la fame, la scuola di sopravvivenza, i genitori assenti e anche borderline, il ragazzino è accolto infine nel porto sicuro negli Usa dalla famiglia della madre di quaccheri illuminati e colti: infine Mario Capecchi abbandona la legge della strada e impara (a fatica) le regole della società. Nel fuoricampo del film, con il modello dello zio fisico collega di Einstein, studierà ad Harvard fino a ricevere il Nobel nel 2007 per i suoi studi di genetica che hanno contribuito alla lotta contro il cancro.

Il legame tra scienziati e festival di cinema va oltre l’occasione della presentazione di un film biografico e si sviluppa in una approfondita esposizione di tematiche che hanno a che fare con il presente: «In questo momento siamo sottoposti a un enorme stress, esordice il prof. Capecchi, dobbiamo guardare alle persone che sanno ispirare, dobbiamo andare oltre e guardare alle persone che lo sanno fare, cioè gli artisti. Anche se a prima vista sembrano separate, dice il prof. Capecchi, arte e scienza sono collegate: prendo un’idea, poi ne prendo un’altra e le faccio dialogare e trovo qualcosa di nuovo, proprio come fa l’arte. Leonardo collegava arte e scienza, faceva acute osservazioni e trovava qualcosa di nuovo, pensate solo al volo. Noi dobbiamo trarre ispirazione da questa correlazione».

Che non si tratti solo di una generica speranza è sottolineato dal prof. Doglioni quando specifica che nel gruppo delle materie di studio contrassegnate con l’acronimo STEM (science, technology, engineering and mathematics) è stato proposto si aggiungere anche la A di «Art» rinominandolo STEAM, unione di scienza e creatività, poiché il percorso della ricerca scientifica è simile a quello della ricerca degli artisti, che realizzano un prodotto frutto della loro capacità tecnica. Né è troppo distante il concetto che gli scienziati debbano assumere responsabilità verso il futuro: così come gli scienziati si sono uniti in occasione della pandemia, ora devono farlo rispetto al riscaldamento globale, imparando a distribuire le risorse, e «in questi giorni di follia bisogna imparare a gestire i rapporti con i colleghi russi, è il momento di abbandonare la guerra».

Con grande pragmatismo si dà un termine anche alla terra: «Pensiamo che la terra durerà per sempre ma non è così, aggiunge Capecchi, la guerra potrebbe causare uno stress enorme. Noi non possiamo stare a guardare, dobbiamo porre fine a questa guerra perché potrebbe distruggere ogni singola vita. Dobbiamo sostituire la guerra con la scienza e l’arte. Noi uomini abbiamo fatto tanto, ma qualcosa di più avremmo potuto fare. Le donne sono portatrici del significato di quanto la vita sia preziosa, sono loro a dover assumere ora un ruolo di guida, Nella scienza la differenza la fanno i singoli, e quando lo sforzo si unisce si fanno le grandi scoperte. La scienza mi ha insegnato che «ieri» non conta, conta il «futuro» che significa prenderci cura del pianeta.

Noi possiamo fare molto di più di quello che facciamo, la creatività del singolo è il 5% di quello che crediamo di fare, dobbiamo liberarci, andare oltre noi stessi, liberare capacità che non pensiamo neanche di avere. Dobbiamo però agire collettivamente, ispirare gli altri e mentre lo facciamo ispirare noi stessi. Uno dei pregi della scienza è che non ha confini, come l’arte non ha confini.

E per noi intendo un «noi» politico, mi riferisco a tutto il mondo della scienza, i processi scientifici non sono diversi dai processi politici, di sicuro la scienza avverte i politici di non distruggere la terra, ma di prendersene cura, ma forse ci sono problemi di comunicazione tra le due comunità, bisogna imparare a parlare più chiaramente. A cominciare dal fatto che madre natura non segue la nostra logica, è così che si è evoluta, ha preso un elemento e lo ha utilizzato. Si deve procedere come in un gioco, come nel comporre un puzzle: ho delle domande, cerco delle risposte, non possiamo prevedere dove arriverà la prossima idea».

Intanto è arrivata la testimonianza della guerra anche sul palco del Bifest con il film Zabuti (Dimenticati) di Daria Onyshchenko che ha ritirato come portavoce di tutti i suoi colleghi, il premio Fellini del Bif&st dedicato ai registi ucraini, in questo momento fuori dai set e in prima linea.

Zabuti (2020) ci riporta alle origini della guerra, ad almeno otto anni fa quando la regista cominciò a raccogliere le storie delle persone che vivevano nei territori occupati del Donbass, e individuava come avanzava e si confezionava la macchina della propaganda. Protagonista è una professoressa di lingua ucraina costretta a parlare solo in russo, a subire la propaganda nella scuola e a restare nei confini della repubblica popolare perché il marito ha deciso così, si trova ad affrontare un clima convulso di odio e violenza che ci ricorda l’anteguerra dei videomusicali croati, di film come La polveriera di Paskalievic, che coglieva il clima oscuro e gli scontri fratricidi della guerra in Jugoslavia.

Rispetto a Zabuti che ci mette in comunicazione diretta con il presente, il britannico stile impeccabile di una guerra nascosta come quella delle spie di Operation Mincemeat di John Madden con Colin Firth, presentato in anteprima al festival, ci fa almeno prendere le distanze dalla seconda guerra mondiale e guardarla come un grande divertente gioco di abilità, aplomb e sagacia, giocato dai tanti scrittori che facevano parte dell’Intelligence.

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