Mario Boccia, ho guardato nel mirino di uno Zastava M76
La testimonianza Sarajevo 1993, nella postazione serbo-bosniaca di prima linea a Grbavica
La testimonianza Sarajevo 1993, nella postazione serbo-bosniaca di prima linea a Grbavica
Nel 1993 ho avuto l’opportunità di guardare dentro il mirino telescopico di un fucile Zastava M76, l’arma più usata dai tiratori scelti di quel conflitto. Era puntato verso il basso in una postazione serbo-bosniaca sopra il cimitero ebraico di Sarajevo. La visione artificiale riprodotta venticinque anni dopo nelle fotografie di Luigi Ottani è di un realismo inquietante. Il cecchino riassume l’orrore della guerra in un gesto: è nascosto, invisibile, spara e vede morire la sua vittima. È fin troppo facile odiare chi spara sui civili, bambini compresi, ma se li immaginiamo come dei mostri facciamo un errore. La loro tecnica è primitiva. Sono mostruosi perché facilmente replicabili.
E possono assomigliarci perché i processi di costruzione dell’odio, che trasformano persone normali in killer, non sono una prerogativa balcanica E poi ci sono tiratori scelti che sparano per difendere una città e quelli che sparano per conquistarla. Non sono la stessa cosa. Tra loro c’è la stessa differenza che passa tra la ragione e il torto. Tra il 1992 e il 1995 ho avuto modo di incontrare molti combattenti attorno a Sarajevo, soprattutto tra i ranghi di chi aveva torto. Non credo che una delle motivazioni che spingono un cecchino a sparare possa essere quella di ricevere uno stipendio (figuriamoci a cottimo, secondo fantasiosi «listini prezzi» per tipologia di vittima). Quelli che ho incontrato uccidevano gratis: per odio o per senso del dovere verso la propria assurda idea di ‘popolo’.
A settembre del 1993, arrivai in una postazione serbo-bosniaca di prima linea a Grbavica. Un buco nero dove si entrava al massimo in tre, a un centinaio di metri dalle linee bosniache. Ero con Edoardo Giammarughi, indimenticabile compagno della redazione esteri de il manifesto. C’era un volontario greco, venuto apposta a Sarajevo per combattere in nome di quella che definiva «fratellanza ortodossa». Non so se fosse un tiratore scelto, perché nella postazione c’era una mitragliatrice «normale» con il bipiede (una Zastava Sarac M53).
Quel ragazzo di Atene era un nazista esaltato. Il suo sguardo era inquietante. Parlava di un complotto ebraico per conquistare il mondo e sosteneva che i musulmani di Bosnia ne erano complici. Ci mostrava i codici a barre sui pacchetti di sigarette, le confezioni di biscotti, la bottiglia di grappa (tutte cose rare per i comuni mortali a Sarajevo in quei giorni) e spiegava che attraverso quei codici gli ebrei avevano il controllo economico del mondo. Non potevo che annuire, se volevo uscirne. La mitragliatrice era alimentata da un nastro di munizioni incendiarie al fosforo. Scattai due foto. I graffiti sul muro raccontavano di un ambiente malato e violento. La frase più impressionante: «Stasera è la nostra sera (…) Aljo (nomignolo che storpia quello dell’allora presidente bosniaco Alija Izetbegovic, usato per indicare con disprezzo un musulmano) si cuoce e si gira, fanculo, non ha avuto fortuna». Viene in mente l’agonia di qualcuno colpito da pallottole incendiarie. Sembra di vedere la scena: musica ad alto volume (c’era un radioregistratore di fianco alla mitragliatrice) e risate nel vedere la vittima agonizzante contorcersi. In basso, al centro, un disegno porno. Sul calcio della mitragliatrice due parole ‘…lud sam’, ‘sono pazzo’.
Dicembre 1995. Qualche giorno prima del Natale, entrai in una postazione sulle pendici del monte Trebevic, poco sopra il cimitero ebraico di Sarajevo. Gli accordi che posero fine alla guerra erano stati firmati, ma le postazioni militari sulla città erano tutte al loro posto (il ritiro in applicazione degli accordi di Dayton era previsto per marzo 1996). Scattai una foto ai tre militari che erano lì. Nulla di quei tre giovani uomini rimandava all’immaginario comune sulla faccia di un assassino. Erano calmi e gentili. Uno mi fece gli auguri di Natale, ricordando che anche loro lo avrebbero festeggiato tredici giorni dopo di noi, secondo il calendario Giuliano. Era un ragazzo colto. Ricambiai gli auguri. Poi notai uno Zastava M76 col mirino telescopico. Chiesi se lo usassero. Due risposero di sì e il terzo abbassò gli occhi, mentre gli altri scherzavano sul fatto che lui non ne fosse capace; si vergognava di non essere un killer. Gli chiesi a chi sparassero da li. Uno mi rispose: «Da qui vedo la casa dove abitavo e sparo su qualunque musulmano si muova dietro quelle finestre». Una risposta poco credibile, data con uno sguardo tranquillo, come se stesse parlando della cosa più normale del mondo. Domandai se distinguesse tra uomini, donne e bambini. Mi rispose di no, quasi stupito dalla domanda. Gli chiesi se avrebbe sparato anche a Natale. «Loro non lo festeggiano», replicò sorridendo.
Dicembre 1992. Collina di Hum, a sud di Trebinje. Eravamo sulla prima linea serbo-bosniaca verso il confine croato. Il capo di quel plotone di soldati serbi era molto giovane. Fumava una sigaretta dietro l’altra usando un bocchino d’ambra. Aveva occhiaie profonde ma era tranquillo. Mentre lo stavamo intervistando, dall’altra parte iniziarono a sparare. Ci riparammo dentro un edificio semidistrutto, mentre lui, calmissimo, prese la radiotrasmittente e parlò con qualcuno. Pensammo che stesse chiedendo rinforzi, ma gli spari cessarono quasi subito. Gli chiedemmo cosa era successo e lui rispose che aveva chiamato il capo degli altri per dirgli di smettere di sparare perché c’erano dei giornalisti italiani e lui stava facendo una ‘figura di merda’. Gli chiesi come mai questa confidenza e mi rispose che lo conosceva bene perché erano stati amici e compagni di scuola. Aggiunse che si parlavano spesso tra loro, per radio, nei momenti di tregua, per maledirsi, ma anche per scherzare. Gli chiesi che cosa avrebbe fatto trovandoselo davanti all’improvviso e lui rispose senza esitare: «È un mio nemico, quindi gli sparo».
*Fotografo e giornalista, ha seguito i conflitti balcanici dal 1991 al 2001. Per «Shooting in Sarajevo» ha firmato il contributo «Il peso della testimonianza»
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