Marino e le sue 110 ore di assenza nel quartiere della rivolta
Tor Sapienza Questa politica, che somma al fallimento dell'edilizia popolare la crisi dell'accoglienza degli stranieri, va rovesciata da cima a fondo
Tor Sapienza Questa politica, che somma al fallimento dell'edilizia popolare la crisi dell'accoglienza degli stranieri, va rovesciata da cima a fondo
Una legge fondamentale della politica, elaborata da Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin, recita così: il 6 novembre sarebbe troppo presto, l’8 sarà troppo tardi. Dunque, dobbiamo agire il 7. Così Lenin rifletteva su quale fosse il momento più opportuno per lanciare l’assalto al Palazzo d’inverno (e le date sono quelle del calendario russo), ma quella regola essenziale vale per qualunque evento politico, come il più modesto manuale di politologia spiega diffusamente.
In altre parole, il tempo è fattore cruciale nella struttura dell’azione pubblica e nell’interpretazione del suo successo e del suo fallimento.
Ovvio, no?
Ma se è così chiaro perché cavolo mai il sindaco di Roma, Ignazio Marino, si è recato nel quartiere di Tor Sapienza non lunedì mattina, bensì il tardo pomeriggio di venerdì 14 novembre? Ovvero oltre 110 ore dopo l’inizio delle violenze. E perché nessun altro membro della Giunta si è fatto vivo prima? E come è stato possibile che – all’interno dello staff del sindaco, composto da persone competenti (e che di politica ne sanno molto più di me) – a nessuno è venuto in mente di proporre una cosa semplice semplice? Quella, cioè, di andare subito lì e, poi, magari ritornare e starci tutto il tempo necessario.
Certamente non avrebbe bloccato le aggressioni e risolto il problema, ma altrettanto certamente lo avrebbe ridimensionato e riportato nell’ambito dell’amministrazione della città; e avrebbe potuto anticipare soluzioni alternative che oggi appaiono drammaticamente in ritardo, assunte con precipitazione e sotto l’evidente ricatto degli eventi.
Di più: il sindaco avrebbe potuto recuperare un po’ di autorevolezza (e dio solo sa come ne abbia bisogno), nonostante i rischi che avrebbe corso, e magari proprio in ragione di essi. Talvolta le contestazioni e le ingiurie possono far bene al consenso: dipende, naturalmente, da come vengono affrontate.
Infine, forse si sarebbe potuto ridurre lo spazio di azione per quei gatti della politica di destra: e non parlo di Mario Borghezio per amor di patria e di pianura padana (alla quale sono legato da oscure radici antropologiche). E nemmeno di Paola Taverna, la cui performance a Tor Sapienza ha raggiunto il più sublime grottesco, come solo il Paolo Virzì di Ferie d’Agosto. Mi riferisco, piuttosto, agli esponenti del partito dell’ex sindaco Gianni Alemanno (che notoriamente ha fatto faville), i quali rivelano di avere un solo tratto comune con gli abitanti di Tor Sapienza: quello di parlare in romanesco, seppure con un accento più greve e un vocabolario più povero (il massimo dell’emozione trash sarebbe Giorgia Meloni che legge un bel componimento di Alemanno).
Dico tutto questo non contro Marino, ma a favore di Marino perché, tra le sue responsabilità, non annovero quella relativa al fallimento delle politiche per l’accoglienza e per l’asilo.
In quest’ultima materia, le responsabilità dell’attuale sindaco sono certamente minori di quelle delle giunte precedenti e dei governi centrali.
E le conseguenze più gravi di tutto ciò si manifestano nella loro spietata crudezza proprio a Tor Sapienza e in altre decine di periferie urbane.
Ora, la mia sacrosanta paura delle parole non mi impedisce di definire quella adottata una sorta di politica dell’ammasso di vite in magazzini periferici. Ovvero un alto numero di richiedenti asilo di tutte le età e di tutte le etnie raggruppati in locali fatiscenti, collocati in zone dove già prevale una toponomastica della marginalità.
A Tor Sapienza, ma non solo qui, il centro di accoglienza è collocato all’interno di un comprensorio, cui si accede da un viale diventato col tempo una sorta di mercato delle droghe a cielo aperto, e all’interno di quell’area si trovano un altro centro con centinaia di ospiti, uno stabile occupato da stranieri e un altro da cittadini italiani, vittime della «emergenza abitativa». E, poco lontano, un campo nomadi.
Questa politica, che somma al fallimento dell’edilizia popolare la crisi dell’accoglienza degli stranieri, va rovesciata da cima a fondo.
L’intelligenza amministrativa, la ragionevolezza sociale e il buon senso, oltre che le disposizioni dell’Unione europea, vorrebbero una strategia tutt’affatto diversa: un sistema di accoglienza per piccoli gruppi, dislocati in insediamenti di dimensioni modeste e diffusi sull’intero territorio della città. Da qui potrebbe discendere un’assistenza non indistinta e anonima, bensì disegnata sui bisogni individuali e familiari. Ne conseguirebbero la riduzione dell’inquietudine dei residenti e, allo stesso tempo, il miglioramento della qualità delle condizioni di vita per i profughi. E questo consentirebbe persino di accogliere un numero maggiore di richiedenti asilo.
Certo, è un’impresa ardua e di lungo periodo, ma se non la si intraprende sin da ora, la situazione è destinata a precipitare ulteriormente. Si deve iniziare subito, dunque, proprio perché – magari tra due, tre anni – il quadro possa radicalmente cambiare.
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