Per un momento pensate che in cielo ci sia un luogo particolare dove i più grandi calciatori di tutti i tempi che non sono più tra di noi si ritrovano per una partita. Da una parte italiani e stranieri che hanno giocato in Italia, dall’altra quelli che invece non ci hanno mai giocato. Sulle panchine grandi allenatori e come arbitro il più rispettato in Italia.

Questo è quello che ha immaginato Marino Bartoletti nel suo ultimo libro La Partita degli dei (Gallucci Editore, euro 19) che arriva dopo La cena degli dei, Il ritorno degli dei e La discesa degli dei. Bartoletti, giornalista e scrittore, in tutti i libri ha immaginato che esista un Luogo, con la L maiuscola, dove c’è un Grande Vecchio in terra e in cielo, Enzo Ferrari, che con il suo stesso desiderio vuole raccogliere attorno a sé le persone a cui ha voluto bene, personaggi che ha amato ma anche qualcuno che vorrebbe conoscere.

Come nasce l’idea di questa partita impossibile?
A un certo punto il Grande Vecchio si accorge che esattamente un anno fa se ne sono andati in rapida sequenza prima Pelè, poi Mihajlovic e poi, pochi giorni dopo, Gianluca Vialli per cui deve aver pensato a quanti calciatori importanti ci sono qui nel Luogo. Già nei libri precedenti si era parlato di Rossi, Maradona, Scirea e quindi gli viene in mente che ci sono tanti campioni in paradiso, perché non fargli fare una partita fra di loro? Nasce l’idea di questa partita degli dei che vede da una parte tutti i grandi calciatori stranieri che non hanno giocato in Italia quindi Pelé, Cruijff, Eusebio, Di Stefano, Puskas, Jašin e Best e dall’altra i grandi stranieri che hanno giocato nel nostro Paese come Maradona, Suarez, Mihajlovic e ovviamente anche i grandi italiani che vanno da Valentino Mazzola, Meroni, Facchetti, Scirea, Paolo Rossi, fino a Gianluca Vialli che è stato l’ultimo a lasciarci.

Chi vince?
Come si dice posso spoilerare quasi tutto, ma non l’esito della partita. Comunque ti posso dire che è una partita vera, con tanti goal, dei rigori e anche con qualche calcio negli stinchi perché comunque non si dimenticano di essere stati dei calciatori.

Sulle due panchine chi ha messo?
Da una parte c’è un comitato tecnico. C’è Helenio Herrera che guida la serie A però ha come assistenti Mondonico e Boskov che sono i due allenatori di riferimento della vita di Vialli, che è un po’ il protagonista di tutto il libro e a cui è dedicato: «A Gianluca che ci ha insegnato la gentilezza anche nel momento dell’addio». Mondonico è stato il suo primo maestro, mentre Boskov è stato il suo maestro di vita calcistica. Sull’altra panchina, dato che non c’è bisogno di un allenatore, alla fine Pelè ha messo Vicente Feola che fu il commissario tecnico del primo Brasile campione del mondo nel 1958 e che lo lanciò in nazionale.

E come arbitro?
Concetto Lo Bello, colui che nella leggenda è stato il primo grande, forse il più grande, arbitro italiano che aveva un’interpretazione molto particolare della legge del calcio e certamente non aveva bisogno del var.

Lei ha conosciuto molti dei personaggi citati nel libro… Un aneddoto su uno di loro?
Con Maradona ho avuto un rapporto molto particolare, è stato un amico prima che un campione e io credo di essere stato un amico per lui al punto che assieme a Gianni Minà nel 1989 siamo stati gli unici giornalisti invitati al suo matrimonio.

Un matrimonio molto particolare…
Un matrimonio molto pittoresco, molto partecipato perché c’erano 1500 invitati, molto alla Maradona. Pensa che gli invitati italiani li trasportò in Argentina una domenica sera affittando un jumbo che caricò un centinaio di amici compresi i suoi compagni di squadra e che poi fece scalo a Madrid per caricare Di Stefano, Valdano e non so chi altro. Il matrimonio si svolse in maniera piuttosto chiassosa, diciamo così. Fra gli invitati italiani c’erano anche due cantanti: Fausto Leali, perché a Maradona piacevano molto le sue canzoni di Sanremo di quegli anni Ti lascerò, Io amo, Mi manchi, e Franco Califano che era un suo carissimo amico e che gli portò, come dono di nozze, il suo ultimo disco d’oro.

Chi è per lei il più grande di tutti, calcisticamente parlando?
Maradona senza dubbio. È chiaro che stiamo parlando di eccellenze nel vero senso della parola, però con tutto il rispetto e l’ammirazione che porto nei confronti di Pelè che ha fatto vincere squadre che forse avrebbero vinto anche senza di lui, anzi il mondiale del 1962 il Brasile lo ha vinto senza di lui, Maradona ha fatto vincere squadre che il mondiale e lo scudetto sicuramente non avrebbero mai vinto senza di lui.

E dal punto di vista umano?
Sono stato tanto amico di Scirea, per esempio, ma anche di Facchetti. Due persone che si assomigliano moltissimo e uno è stato l’erede dell’altro nazionale. Due persone che ci hanno insegnato anche loro la gentilezza, la nobiltà d’animo, la signorilità in campo e tante altre cose.

Il libro è dedicato a Gianluca Vialli che giusto poco più di un anno fa ci ha lasciato. Un ricordo?
Sono tanti i ricordi che ho di Gianluca. L’ho conosciuto quando aveva 18 anni perché me lo presentò il suo presidente alla Cremonese, Domenico Luzzara. Già così giovane lo volevano in tanti, ma Luzzara lo aveva promesso a Mantovani presidente della Sampdoria e quindi non lo diede al Milan di Berlusconi e nemmeno alla Juventus di Agnelli. Nella Sampdoria Gianluca assieme a Mancini fu il leader di un gruppo irripetibile per il calcio italiano.

Parlando di partite di calcio, qual è stata la prima che ha visto allo stadio?
È una partita che mi è rimasta nel cuore per un motivo particolare. Avevo cinque anni quando mio papà mi portò allo stadio a vedere una partita di Serie C tra Forlì-Cesena. Il numero 4 del Forlì si chiamava Sandro Ciotti. Quanto è piccolo il mondo. Sandro sarebbe diventato tanti anni dopo mio amico e ovviamente si sarebbe commosso a quel ricordo. Ci univa l’amore per la musica, per Sanremo, e per lo sport. È una cosa veramente ai confini dell’arcano.

Nei quattro libri che ha pubblicato c’è la figura del Grande Vecchio, Enzo Ferrari, che sovraintende a tutto. Con lui ha avuto un rapporto particolare…
Lui mi ha onorato della sua amicizia anche se la parola è grossa. Mi ha voluto bene perché sua madre era di Forlì come me, perché forse gli ho fatto tenerezza la prima volta che mi ha visto. Tante volte si è confidato con me. Ho visto di lui una parte dell’animo che non tutti hanno potuto apprezzare perché molti l’hanno vissuto soltanto come una persona molto dura, cinica, scontrosa e forse persino cattiva. Invece aveva una nobiltà d’animo che non manifestava a tutti e la schermava dietro a quelle lenti scure che non si toglieva mai. Voleva proteggersi dalle tragedie che la vita gli aveva apparecchiato: dalla morte di un figlio per distrofia muscolare alla morte di tanti piloti che erano un po’ figli suoi.

Altra sua grande passione è la musica. Ha seguito dal vivo più di trenta Sanremo. Qual è stata l’edizione che ricorda con più emozione e perché?
Una vissuta da ragazzo, avevo 15 anni, in bianco e nero nel 1964. Quello fu un anno di svolta per il Festival che si tolse pochino la sua patina provinciale e invitò, da quell’anno e per molti anni a seguire, tutti i grandi cantanti stranieri. Parliamo di Gene Pitney, Paul Anka, Bobby Darin, Louis Armstrong. Ho ancora le bobine del registratore con cui in maniera artigianale registrai le canzoni delle serate di Sanremo.

Per chi fa il tifo tra i cantanti in gara quest’anno?
Ho molti amici in gara. Sono contento che ci siano il Volo, Loredana Bertè, I Ricchi e Poveri. Non voglio però fare il passatista e sono contento che ci siano 15 esordienti e tanti giovani. Alla fine è una occasione buona per adeguarsi alla contemporaneità.

Le piace la musica che ascoltano i giovani?
Ma sì! A me piace tutto. Certo faccio un po’ fatica a sentire il rapper però poi alla fine vedi che a Sanremo l’anno scorso qualcosa di buono è venuto fuori. È una maniera di avvicinarsi in qualche modo alla contemporaneità senza far capire che siamo vecchi.