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Marijam Did, come i videogiochi stanno cambiando il mondo

Marijam Did, come i videogiochi stanno cambiando il mondoDalla locandina di «Call of Duty – Modern Warfare»

Pagine Everything to play for, un saggio da Verso Book

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 28 settembre 2024

Già è meritevole che la più nota casa editrice della sinistra anglosassone, Verso Books, pubblichi un libro sui videogiochi; ancora più notevole è che lo scriva Marijam Did, attivista, sviluppatrice di videogiochi e sindacalista, quindi addentro sia alla sinistra radicale sia all’industria videoludica. Everything to Play For. How Videogames are Changing the World (2024) è un invito alle sinistre globali perché si occupino del videogioco. Quella videoludica è la prima industria dell’intrattenimento al mondo, e le sinistre non possono o non dovrebbero ignorarne la rilevanza lavorativa ed economica. E con tre miliardi di persone che videogiocano non è possibile ignorarne la rilevanza culturale (le destre estreme l’hanno capita da tempo).

Come non dovrebbe essere ignorata la capacità del gioco di creare spazi di libera sperimentazione di nuovi modi di esistere e coesistere. Perciò il libro cerca di essere il più introduttivo possibile: dà per scontato che chi lo legge sappia cosa sia il materialismo storico, ma non pretende alcuna conoscenza del mondo del videogioco. Everything to Play For è però anche un invito alla critica videoludica e a chi lavora con questo medium. È un invito a confrontarci effettivamente con il videogioco da una prospettiva materialista che metta in evidenza i rapporti di potere e di classe e lo sfruttamento di persone e risorse naturali che ne permettono l’esistenza stessa. È un invito a iniziare a pensare, per poi costruire, un videogioco capace di emanciparsi dal capitalismo, a partire dai processi di estrazione dei minerali necessari per i dispositivi elettronici.

«Tutto l’hardware usato per il videogioco» nota Did, «che siano computer, console o più recentemente dispositivi mobili, è assemblato in fabbriche pervase da abusi nell’est asiatico e usa risorse estratte dall’Africa centrale in un contesto di deportazioni di massa, schiavismo ed enorme corruzione».
Il libro racconta il videogioco nel suo rapporto con politiche e politica attraverso cinque livelli di approfondimento e (come nei videogiochi) difficoltà crescenti.

Did ripercorre la storia del videogioco dai primi esperimenti (in un capitolo con un po’ di errori tanto insignificanti quanto evitabili). Poi Everything to Play For si occupa dell’aspetto rappresentativo, cioè di come temi, storie e contenuti dei videogiochi più o meno esplicitamente e volontariamente rappresentano e affrontano questioni politiche. Serie come quella militaresca di Call of Duty di Activision contribuiscono attivamente all’egemonia culturale capitalista. Ma spesso è solo questo aspetto contenutistico e tematico a venire attaccato dalla critica e a venire rovesciato in opere che vincono premi come «Games for Change» (giochi per il cambiamento) senza avere alcun impatto concreto su lotte reali.

«Attendo il giorno in cui i videogiochi politici non si fermeranno meramente a criticare lo status quo ma forniranno strumenti per destabilizzarlo» scrive l’autrice. Il libro prosegue raccontando la vita politica delle comunità che si raccolgono intorno ai videogiochi. Nella sezione forse più interessante, Did cerca nel mondo dell’arte contemporanea esempi positivi e negativi di come le arti possano confrontarsi con la realtà politica. E infine l’autrice approfondisce le condizioni materiali della produzione sia dei videogiochi sia dell’hardware su cui girano. «Ciò che si avvicina di più all’ideale [che Did sta promuovendo] sono le mod [modifiche di giochi esistenti] gratuite e i progetti non commerciali creati con software liberi come Bitsy e Twine» sintetizza Did. «Implicherebbe la creazione di giochi pensati per dispositivi costruiti in condizioni decenti di lavoro, con componenti che non costano vite nei Sud globali. Non si baserebbe su un internet fatto di server posseduti da compagnie private che possiedono e gestiscono le nostre reti di comunicazione. Oggi come oggi, ho difficoltà a immaginare come sia questa alternativa, ma tale dovrebbe essere la nostra ambizione».

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