«Scoprirebbero nuove solidarietà, nel naufragio? La carne diventa pesce, quando si annega?»: Mariette Navarro, autrice francese, ha esordito con il romanzo Ultramarino (pp. 160, euro 16,90), edito da La Nuova Frontiera, con la traduzione di Camilla Diez. È la storia della traversata di una nave cargo dove, a seguito di un bagno imprevisto dei marinai nell’oceano, iniziano a verificarsi delle anomalie nel funzionamento della nave. Il compito di accettare i limiti umani e il potere della macchina è nelle mani della comandante, l’eroina del romanzo.

Nel suo esordio si ritrova un’idea rivoluzionaria: è una macchina – la nave – alla quale la protagonista si riferisce chiamandola «animale», che come tale può ammalarsi. Ce ne può parlare?
All’origine di questo testo c’è un viaggio che ho fatto nel 2012 con degli altri scrittori, su una nave cargo. Durante la traversata ho preso molti appunti sulle sensazioni fisiche che provavo e sulle immagini che mi attraversavano. Mi colpiva a che punto le nostre percezioni siano alterate in mare e come siamo sprovvisti di punti di riferimento. È come se i nostri corpi non capissero più niente.
Con le vibrazioni del motore incessanti, notte e giorno, avevo l’impressione di un animale che respirava, il cui cuore batteva sotto il mio letto. Paradossalmente questa macchina di ferro diventava per me in qualche modo sensuale. Molti marinai mi hanno detto anche che per loro ogni nave ha la sua personalità e che per questo scelgono di imbarcarsi solo su alcune e non su altre, a seconda di una strana forma di compatibilità di carattere.
Ciò che mi affascina sono i luoghi in cui qualcosa sfugge alla nostra razionalità e ai nostri calcoli. Attraverso la scrittura mi piace indagare lo spazio del rallentamento, dell’arresto, dello scarto laterale.

Il mare rappresenta un altrove, fuori dalla storia, dalla società, quasi dal pianeta. Questo aspetto dà al suo testo un sapore fantascientifico. Si tratta di una scelta che risponde a un bisogno di utopia o questa prospettiva si situa di più nella dimensione del sogno?
È un aspetto che ritorna in modo ossessivo in ciò che scrivo: la ricerca dell’altrove, di un luogo in cui ritirarsi per scappare a un ritmo e a una società che non sono più adatti all’umanità e ritrovare il nostro modo di stare al mondo, il nostro tempo. In questo la comandante della nave mi assomiglia molto. In mare si può sparire, almeno per il tempo della traversata, scappare da ciò che succede sulla Terra. Vigono altre leggi, si perde la nozione del tempo. Quindi sì, c’è un’istanza utopica nell’immaginare nuovi spazi dove reinventare tutto e la letteratura è il luogo per sperimentare ciò, mentre nella vita reale è più difficile!

In «Ultramarino» è descritta in vari punti l’ipotesi della mutazione umana, attraverso un contatto prolungato col mare: «dopo i primi giorni a bordo si verificano delle mutazioni tra la carne e il metallo, così come dicono che nel fondo degli oceani la plastica si fonda al pesce». Rispetto alla crisi ecologica che minaccia la sopravvivenza della specie, immagina la possibilità per gli esseri umani di un adattamento invece dell’estinzione?
Ho sognato questo ibridismo, di cui mi hanno parlato molti marinai, sulla possibilità per gli esseri umani di trovare rifugio in un ambiente che non è adatto a noi e che anzi in qualche modo ci è ostile, come il mare. Non so cosa accadrà in futuro ovviamente, ma è interessante vedere come i nostri corpi, dopo una prima fase di smarrimento, ritrovino in mare il proprio equilibrio.

Attraverso l’analisi intertestuale emerge che mentre lei scriveva il suo primo romanzo, la poeta tedesca Anja Kampmann componeva il suo esordio in prosa («Dove arrivano le acque», Keller), in cui racconta la storia di un personaggio che lavora sulle piattaforme petrolifere e trascorre la sua vita viaggiando per mare. Che cosa accade tra chi fa poesia e il mare? Può parlarci di questo legame?
Mi stupisco sempre vedendo come alcuni temi siano nell’aria e vari artisti li colgano nello stesso momento senza saperlo, senza conoscere il lavoro gli uni degli altri. In Francia, per esempio, ultimamente stanno uscendo molti libri sul nuoto. Il mare è un ambiente talmente potente che scriverne è inevitabile. Per quanto mi riguarda, mi ha permesso di concentrarmi su cosa significhi essere umani, di immergermi nei personaggi in modo del tutto autonomo da un contesto storico e politico preciso.
Scrivere sul mare significa anche inscriversi in una lunga tradizione letteraria e provare a giocare coi grandi testi del passato. Ho pensato a Omero, a Melville e da quando il libro è uscito non faccio che scoprire nuovi libri con cui Ultramarino è in risonanza, come la Linea d’ombra di Joseph Conrad, per esempio.
Penso che i poeti non abbiano finito di raccontare e di comprendere il nostro legame col mare, i suoi misteri, la bellezza, i suoi segreti, la potenza.

Per Anja Kampmann, come anche per lei, il vero amore sembra esistere solo tra i marinai che «si amano di un amore fortissimo». Solo il mare, dunque, può suscitare l’amore perfetto?
Non so se il mare sia l’unico luogo in cui sia possibile l’amore perfetto, ma volevo che in questo libro che racconta di un contesto di lavoro difficile, ci fosse spazio per la tenerezza.
Tra le tante piccole rivoluzioni che si sono verificate sulla nave in seguito al bagno in mare, c’è la trasformazione di un’amicizia di lunga data in amore. Ho immaginato che vivere rinchiusi in spazi così angusti, senza possibilità di fuga, potesse generare tensioni e conflitti, ma anche complicità impossibili da condividere quando i personaggi tornano sulla terra ferma.

La protagonista del romanzo ha le caratteristiche di una dea omnisciente che riesce a evitare di perdere il comando nel momento in cui accetta la sua umanità e quindi di poter perdere il controllo. Che cosa racconta il personaggio sul potere delle donne?
Quando ho deciso che la nave sarebbe stata comandata da una donna, ho dovuto ripensare tutte le relazioni tra i personaggi del romanzo. Avevo desiderio di scrivere di una personaggia fuori da tutti gli stereotipi, complessa, come non se ne trovano molte in letteratura.
È una donna che lavora, che ama e che, soprattutto, non ha più bisogno di dimostrare le sue capacità agli uomini che la circondano. Visto che tutti si fidano di lei, ha il diritto di avere i suoi momenti di debolezza senza che questo le faccia perdere il suo posto e la sua autorevolezza. Forse è qui che risiede la vera utopia del mio libro.

Il sacrificio di Ifigenia affinché le navi achee possano salpare per andare in guerra contro Troia è un simbolo che marchia alle sue origini l’immaginario culturale occidentale. Il suo romanzo è anche una risposta a questa ingiustizia mitologica, ma soprattutto qui la divinità è la nave, la macchina. Che cosa si dovrà sacrificare perché la divinità tecnologica sia benevola con l’umanità?
Forse, come accade in Ultramarino, bisognerà accettare di fermare la corsa folle delle nostre vite e dei profitti. Rimettersi all’ascolto dei nostri veri desideri e bisogni. Imparare che vivere non è una forma di competizione, ma un’azione di modestia e di silenzio.