Il 5 settembre, si è spenta a Zurigo la poetessa zingara e svizzera Mariella Mehr. «Appoggiata alla schiena della notte / stanca / con la rabbia in pugno», questa era Mariella Mehr, nata sempre a Zurigo il 27 dicembre 1947, una dei circa seicento «bambini» jenisch che tra il 1926 e il 1973 hanno «beneficiato» delle misure adottate dall’Opera di soccorso dei bambini di strada, una sezione dell’associazione svizzera per la tutela dell’infanzia Pro Juventute, che si proponeva di «estirpare il fenomeno zingaro» sottraendo i figli alle madri e a ogni contatto con i parenti.

Sulle tappe raccapriccianti dell’infanzia di Mariella Mehr si è soffermato Emmanuel Betta in un saggio dal titolo Eugenetica in democrazia pubblicato nel volume Uomini e topi (Ibis, 2020), che introduce l’omonima relazione di Mariella Mehr in occasione del conferimento della laurea ad honorem (Basilea, 1998). «La biografia di Mariella Mehr – conclude Betta – evidenzia in maniera drammatica le persistenze e la continuità di pratiche eugenetiche discriminatorie lungo il Novecento».

MEHR A DICIASSETTE ANNI ebbe un figlio e venne a sua volta sterilizzata. Poi cominciò per lei il tempo della rabbia, della ribellione. Grazie all’impegno suo e di un gruppo di giornalisti e intellettuali, nei primi anni Ottanta si chiuse con un risarcimento alle vittime il progetto «Opera di soccorso per i bambini di strada».

Da allora, la sua opera letteraria, la sua lingua impietosa, perché nutrita dalla violenza, la sua prosa asciutta, affilata, a volte addirittura urtante, soprattutto nei romanzi, ha continuato a ricordare quello che è stato uno dei capitoli più bui della storia svizzera.
Già in uno dei brevi testi di steinzeit tempo di pietra, (Guaraldi-Aiep 1995), affiora una sorta di programma di vita e di scrittura: «Fai crescere la tua rabbia, piccola, ti scalderà, ti permetterà di sopravvivere a questo inferno di ghiaccio».

Opere teatrali e romanzi dedicati ad altrettante vittime di violenze e soprusi caratterizzano la fase iniziale e più prolifica della sua produzione letteraria. Solo nel 1995 uscirà il romanzo Labambina (Fandango 2019), che segna un ritorno all’autobiografia e anche uno scatto stilistico: una sorta di espressionismo radicale, una lingua screpolata e a tratti sgrammaticata che la scrittrice inventa per il suo personaggio e che vedrà il suo seguito, non tanto nelle altre opere di quella che Mehr stessa definiva «la trilogia della violenza», quanto nella sua produzione lirica.

Con Il Marchio, del 1998 (Fandango 2018) – che la regista Valentina Pedicini ha portato sullo schermo nel film Dove cadono le ombre (2017) – Mehr ritorna a una narrazione più lineare, tradizionale, mentre il terzo libro che chiude la trilogia, Accusata scritto nel 2002 (effigie 2008) – un libro di faticosa e lunga gestazione, e l’ultimo suo libro in prosa – si rivela un dissimulato ritorno al teatro. Il libro è infatti il monologo di una donna incendiaria e pluriassassina che parla con la sua psicologa forense. Un Foucault inedito fa da epigrafe al romanzo: «Uccidere per la donna è muovere un passo fuori dal femminile silenzio. Non significa altro che: io parlo. Ora parlo io».

Silenzio e parola, vittima e carnefice, sono questi gli estremi entro cui si gioca l’equilibrio incerto, la linea precaria della scrittura di Mehr che continuamente mette alla prova se stessa e il suo lettore.

DA UN ESILIO VISSUTO nel corpo prima che altrove, Mariella Mehr con i suoi libri ha gridato, a volte ha sussurrato, ha imprecato con la sua voce roca da fumatrice, ma sempre nella lingua si è rimessa in gioco. «Bambini come Labambina devono conquistarsi la vita ora per ora – scrive in Labambina – Così non rimane il tempo per tirare il fiato e sorridere».

Ma il tempo per tirare il fiato, e a volte persino per sorridere, Mehr l’ha trovato nella poesia. Lo diceva nelle interviste: il romanzo era la galera, la poesia la felicità di un istante. L’incontro con i grandi poeti dell’esilio – Paul Celan, Nelly Sachs, Antonin Artaud – ha fatto per lei della poesia un luogo protetto. Alla poesia di Mehr dà voce un soggetto certo ferito, a volte straziato, ma indiviso che cerca di continuo la propria integrità

CI SONO PERSONE che hanno vissuto molte vite, Mariella Mehr ne ha vissuta una sola: mille volte ricordata, trasformata, trasfigurata in sogni, incubi, soprattutto in letteratura. La memoria è stata la sua salvezza e il suo esilio: «Stiamo separati di fronte al mondo / ognuno incatenato alla sua ora / le nostre mani toccano un ieri / quante volte e senza conseguenze?» (Ognuno incatenato alla sua ora Einaudi 2013). Non c’era destino per lei al di là del filo teso tra la parola e il ricordo. «Liberami dalla fame di memoria – ha scritto – Spediscimi lontano senza messaggi».