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Mariano & Chaloff, l’arte del sax

Mariano & Chaloff, l’arte del saxLa copertina dell'album «Charlie Mariano Boston All Stars»

Ricordi/Cento anni fa nascevano i due jazzisti di Boston, tanto rilevanti quanto troppo poco celebrati

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

È stato più volte detto che, nella storia del jazz – perlomeno quello che definiamo «classico» e «moderno», evitando la trappola del «tradizionalismo» che leva ossigeno e vitalità a un’estetica in perenne evoluzione – è lo strumento che identifica un’epoca. Certi attrezzi per produrre suoni diventano quasi elementi totemici, presidi simbolici che fanno identificare di primo acchito un’intera stagione. Pensate al clarinetto di Benny Goodman, alla tromba di Louis Armstrong, alla chitarra di Django Reinhardt. Se doveste indicare, di botto, uno strumento che più di altri identifica la modernità e buona parte della contemporaneità del jazz, sarebbe inevitabile rivolgersi alla «doppia curva» del sassofono. Strumento relativamente giovane inventato per rafforzare i ranghi di orchestre classiche e bande marcianti, ma poi soprattutto simbolo del jazz, da Parker e Coltrane in avanti, per come l’immagine dello stesso viene veicolata su manifesti, copertine, pubblicità più o meno invasiva.
Cent’anni fa esatti nascevano due sassofonisti importanti e di rado ricordati come meriterebbero, due sintesi incarnate di quanto possano differire ed evolversi in sensi diversi le estetiche del jazz, generalmente confuse in un unico calderone di luoghi comuni (l’«improvvisazione», la «spontaneità», lo «swing»). Si tratta di Charlie Mariano e di Serge Chaloff. Oltre alla data e al mese della nascita, il 1923, per uno scherzo del destino i due condividono anche la città natale, Boston. Il primo contraltista e sopranista, e progressivamente sempre più addentro e vicino alle tecniche d’uso dei flauti e degli oboi etnici, baritonista puro l’altro. Al primo le Muse e le Parche hanno dato in sorte una lunga vita, ottantasei anni pieni di musica e di svolte, a Chaloff il breve avvicendarsi di stagioni di trentaquattro anni: morì nel 1957, due anni prima di quel 1959 che simbolicamente segna «l’anno in cui cambiò il jazz» con i lavori di Miles Davis, di Mingus, di Ornette Coleman, di Brubeck.

La copertina di «Boston Blow-Up!», l’album di Serge Chaloff

UNA CREATURA AGILE
Serge Chaloff era figlio di due musicisti classici: suo padre suonava con la Boston Symphony Orchestra, sua madre insegnava al Conservatorio della città. Primi rudimenti con piano e clarinetto, poi la scelta, da autodidatta, per il baritono: è affascinato da Harry Carney, il baritonista dell’orchestra di Duke Ellington, il primo a dare una qualche visibilità «solistica» all’ingombrante strumento dall’affascinante suono rugoso, ma lo choc arriva quando sente suonare Charlie Parker con i suoi voli radenti sul ben più flessibile contralto. È lì, con il pioniere del bebop che capisce che il baritono può anche essere una creatura agile, e imposta quel suo suono elegante e tornito, in lieve anticipo su quanto farà , da lì a poco, il ben più conosciuto e celebrato Gerry Mulligan. Dopo un eccellente apprendistato nella band di Jimmy Dorsey, nel ’46 Chaloff è con Woody Herman, e lì si fa notare con la sezione sassofoni ritagliata nell’organico della poderosa band: tre tenori, Zoot Sims, Stan Getz, Herbie Steward, e il suo baritono agile, preciso e saettante come e più degli strumenti più alti, sono i Four Brothers.
Nel 1949 Chaloff lascia la big band, inizia un periodo di buio fitto che durerà fino al 1953. S’è trasferito a New York, ha messo su un gruppo con lo strepitoso e fragilissimo pianista bebop Bud Powell, ma l’eroina è diventata, come per tanti jazzisti di quel periodo, la sua padrona esigente, e di quel gruppo favoloso nulla abbiamo di registrato. Nuovo trasferimento, stavolta a Los Angeles, dove si incide jazz vitale e freschissimo, ben al di là dell’immagine vacanziera venduta sulle copertine a colori, e arriva il capolavoro per il pur provato Serge Chaloff, Blue Serge. Con lui ci sono giganti del jazz come Sonny Clark, Leroi Vinegar, Philly Jo Jones. Un titolo, «Il triste Serge», che sembra l’annuncio di quanto accadrà: un aggressivo tumore alla spina dorsale, che lo porterà prima a camminare con le stampelle (ma orgogliosamente tornerà a incidere con i Four Brothers, per una reunion una tantum), poi sulla sedia a rotelle. La morte arriva il 16 luglio del ’59.

CULTURE ALTRE
Totalmente diversa la vicenda di vita di Charlie Mariano, bostoniano nato Carmine Ugo Mariano, figlio di abruzzesi immigrati. Inizi nel circuito jazzistico bostoniano, e poi anche per lui un lavoro in big band, con l’innovativa orchestra «progressiva» di Stan Kenton, che si muove tra politonalità, reminiscenze «latin» e jazz tra il ’53 e il ’55. Lì affina il suo suono aereo e preciso, spesso impetuoso, poi, altra similitudine con Chaloff, anche per lui c’è un periodo a Los Angeles, a partire dal 1956: ha modo di entrare nel giro del nuovo West Coast jazz di Bud Shank, Chet Baker, Shelly Manne, maestro di cerimonie delle jam session californiane. Poi arriva l’amore a bussare alla porta: nelle fattezze eleganti e splendide della pianista giapponese Toshiko Akiyoshi, notevole solista nel solco di Bud Powell, con la quale mette assieme un quartetto di grande qualità, attivo fino al ’67. Spesso Charlie è in Giappone con la moglie, comincia a incuriosirsi per le culture musicali (e non solo) «altre», come John Coltrane, ma suona anche con il grande Charles Mingus: è lui il contraltista principe nel capolavoro mingusiano The Black Saint & The Sinner Lady. Un momento di grandi svolte: fonda gli Osmosis nel ’67, uno dei gruppi pionieri della nuova fusion elettrica, viaggia intensivamente in India e per tutto l’estremo Oriente: impara a suonare il flauto indiano e il nagusaram, un oboe popolare dal suono potente e penetrante. Un buon esempio lo trovate in Blue Stone, disco del ’71 inciso con Chris Hinze.
L’inizio del nuovo decennio vede Mariano trasferirsi in Europa. Un momento esaltante, in Europa, per le musiche di mediazione e incontro e quelle elettriche nate anche grazie alle intuizioni di Mariano stesso. Nasce il gruppo Pork Pie, con Philippe Catherine, The United Jazz & Rock Ensemble, i Colours di Eberhard Weber. Il pubblico del rock, quello del folk e quello del jazz trovano una sponda comune, con Charlie Mariano, per un fatto decisivo e poco ricordato, nella lunga carriera del sassofonista e flautista: Mariano entra a far parte, allo scorcio del ’71, dei favolosi Embryo tedeschi, un ensemble che, invece di avventurarsi sulle poste psichedeliche e cosmicheggianti degli altri gruppi del cosiddetto «kraut rock», mette in pratica diretta l’incontro tra strumenti, musicisti e culture diverse. È un ensemble affascinante, fondato nel 1969 a Monaco dal percussionista e tastierista Christian Burchard (tutt’ora attivo, anche dopo la scomparsa del musicista, grazie alla figlia), ne farà parte per un breve periodo anche un altro importante jazzista americano, peraltro spesso in sala d’incisione in questi anni proprio con Mariano, il grande Mal Waldron. Con loro Mariano incide fino al ’76, e sono dischi memorabili e da riscoprire con il sapore del jazz e le timbriche del folk globale come We Keep On, Surfin’, Bad Head & Bad Cats.
L’avventura «pan-etnica» con gli Embryo non frena certo l’attivissimo Mariano in altre avventure: incide Reflections con una formazione finlandese, poi Helen 12 Trees, sorprendente combo con, tra gli altri Jack Bruce alla chitarra, Jan Hammer alle tastiere, John Marshall dai Soft Machine alla batteria. Nel 1981 arriva l’inatteso Elegy for a Goose: stavolta il puntatore va verso l’avant jazz, in studi con lui c’è Anthony Braxton ai fiati, Aki Takase al pianoforte, Joe Fonda al basso, Gunter Baby Sommer alla batteria. Muore il 16 giugno 2009 in Germania, a Colonia.

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