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Mariani, qualcosa d’imperfetto nel presente

Mariani, qualcosa d’imperfetto nel presenteUna doppia pagina del catalogo ragionato di Carlo Maria Mariani: "Piccolo concerto: è la mano che fa l’artista", 1990, cinque dipinti, collezione privata

"Mariani. Catalogue Raisonné", a cura di Emanuela Termine, ed. Allemandi La tensione mimetica verso il Neoclassicismo (Kauffmann) e una concettualità ora scoperta, ora intrinseca all’atto stesso di dipingere. Scorrendo "ad annum" la produzione di Carlo Maria Mariani l’etichetta «anacronista» risulta insufficiente e ingombrante

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 marzo 2023

A volte, nel corso della ricerca artistica, può accadere che la contemporaneità più sincera sembri sovrapporsi all’inattualità. Prendete ad esempio quegli artisti che tra gli anni settanta e gli anni ottanta esploravano nuove possibilità nella pittura di figura risalendo la corrente contro il vento egemone dell’arte concettuale: consci della fine del modernismo, con le sue promesse di un infinito progresso di -ismi, in molti erano a recuperare e riassemblare liberamente nelle loro opere elementi formali mutuati dalle più varie correnti stilistiche del passato, aggregandosi, o più spesso venendo associati per intuizione di critici d’arte, in movimenti come la Transavanguardia, il Citazionismo, l’Anacronismo.
A questa temperie appartenne la pittura di Carlo Maria Mariani, ma sarebbe un grande errore limitare la contestualizzazione della sua ricerca a una mera ripresa dei maestri del passato, una delle tante reazioni a una dimensione moderna avvertita come estranea. In questo ci corre in aiuto il nuovo Catalogue raisonné della pittura di Mariani pubblicato da Allemandi sotto la scrupolosa cura di Emanuela Termine, e nato inizialmente studiando e ordinando l’archivio dell’artista a New York: Mariani (inglese/italiano, pp. 420, illustrato, euro 171,00).
Si tratta di un’opera costruita sotto la supervisione dell’artista stesso negli ultimi anni della sua vita, e pubblicata qualche mese prima della sua morte (20 novembre 2021), andando così ad assumere un forte valore simbolico. Il processo di compilazione del catalogo ha poi portato a diverse riscoperte per via filologica, come i dipinti a tema religioso eseguiti da Mariani nei primi anni settanta per il Monastero Benedettino di Santa Scolastica a Subiaco, con la commissione di don Franco Bertolotti, singolare figura di ecclesiastico ed ex-artista con il nome di Chino Bert, e per la Chiesa della Beata Maria Vergine Refugium Peccatorum sugli Altopiani di Arcinazzo vicino Roma.
Il volume è composto essenzialmente dal vero e proprio catalogo dei dipinti, suddivisi per decenni, e da una «biografia narrativa con antologia dei testi critici», in cui ritroviamo scritti di critici d’arte e galleristi che nel corso del tempo hanno messo in luce diversi aspetti dell’opera di Mariani, da Mario Diacono a Maurizio Calvesi, da Italo Mussa a Daniela Lancioni. È un approccio che sembra scaturire dalle stesse parole, citate ad apertura di catalogo, con cui l’artista avvertiva l’inopportunità di parlare della sua stessa opera, pena il «violare la sua inafferrabile misteriosità». «Perciò credo pienamente nella critica, proseguiva Mariani, nel suo linguaggio e nella sua scrittura».
Scopriamo dunque, sfogliando il catalogo, che la ricerca di Mariani prese nel tempo forme più articolate e differenti rispetto alla classica compartimentazione entro i ranghi dell’Anacronismo con cui viene in genere tramandata la sua opera, ma emerge anche, potendo osservare quelle forme in sequenza e da una prospettiva più ampia, come esse siano parte di un percorso infine coerente e senza soluzione di continuità.
Innanzitutto, la pittura per Mariani non fu mai né ritorno, né conversione tardiva, semplicemente perché fece parte della sua ricerca sin dall’inizio: fin dagli anni cinquanta, infatti, l’artista dipingeva, tenendosi prima entro la cornice della Scuola romana, e poi inventando, nell’ultima metà dei Sessanta, una sorta di strano e minaccioso lessico pop, così caustico verso la società contemporanea, e già proponendo un’alternativa nella pittura del passato, che diventerà il perno principale intorno al quale girerà la sua ricerca. Non è difficile, infatti, guardando quei dipinti, trovare raffaelli urlanti, memorie di nature morte caravaggesche, sinuose schiene neoclassiche combinati insieme con mattoncini Lego, segnali stradali, falci e martello, e altre icone pop.
D’altra parte la lettura della pittura stessa come risposta alternativa e opposta all’egemonia dell’arte concettuale degli anni sessanta e settanta, anche nel ritorno di una abilità manuale ormai scomparsa nell’arte in voga quella stagione, risulta essere troppo semplificativa. Esiste infatti una fase in cui Mariani, negli anni settanta, sembra esplorare proprio i linguaggi del concettuale. A partire dalle mostre Iper/ri/cognizione alla galleria Seconda Scala di Enzo Cannaviello nel 1973, in cui grande tele iperrealiste furono accostate all’audio del rumore di una stella supernova e a una performance, e poi proseguendo con Iper/ri/cognizione 2, e con Compendio di pittura e Mengs, Maron, Mariani nel 1975, in cui venivano accostati pittura, fotografie e pannelli di testo alla Kosuth, egli si muove in una zona che può essere letta come funzionale a una declinazione della pittura quale atto squisitamente concettuale e mentale.
È il momento in cui Carlo Maria Mariani si inizia a interessare ai grandi teorici e artisti del Neoclassicismo, interesse che l’artista dichiarò più volte affondare le sue radici non tanto nelle pinacoteche, quanto nelle biblioteche e negli archivi. Nel 1977 proporrà da Gian Enzo Sperone a Roma la sua nuova ricerca basata su un gioco caleidoscopico di copie, reinterpretazioni e rimandi ai suoi artisti e intellettuali feticcio, da Angelica Kauffmann a Goethe, da Winckelmann a Mengs. Arriverà persino a scrivere una lettera alla Kauffmann, artista nella quale si immedesimerà al punto da completare quel non finito San Girolamo di Leonardo Da Vinci, che la pittrice aveva ricevuto in dono e teneva appeso nella abitazione romana a Trinità dei Monti: «anche ora mi sorprendo a pensare che tu chissà quante volte, nel contemplare il dipinto leonardesco, avrai pregustata la voglia certa di terminarlo, ma riproducendo sull’originale più fedelmente che fosse possibile, la tua più pura impressione della Bellezza», scriveva Mariani alla Kauffmann in una lettera del 1976.
Lo studio, la comprensione, la metabolizzazione dello stile di un artista spinto fino alla completa identificazione risveglia riflessioni sempre attuali su cosa stile e mano siano in effetti: viene in mente il Pierre Menard di Borges, autore di un Chisciotte a un tempo differente e identico all’originale, o il regista Gus Van Sant che girò una versione di Psycho di pura fedeltà.
Dunque non solo pittura come antidoto a quel concettuale che aveva portato alla smaterializzazione dell’opera d’arte, ma pittura come mezzo per comprendere e pacificare essa stessa il concettuale, e non è un caso che altri modelli spesso citati e ripresi da Mariani fossero Picasso e De Chirico, maestri che esaltarono la dimensione più squisitamente mentale della pittura, e Duchamp – si veda l’autoritratto di Mariani ingabbiato nello scolabottiglie –, che per primo aveva segnato il salto dall’arte retinica al concettuale, aprendo così il vaso di Pandora.
Per Mariani, definito di volta in volta con epiteti come «revivalista» o addirittura, da Giulio Carlo Argan, «latinista», il ricorso al passato non fu però passatismo o sterile accademismo: «Io, un certo giorno, ho reinventato una nuova Classicità – scriverà l’artista nel 1988 – per mostrare che qualcosa forse c’era d’“imperfetto” nel Presente».
E quell’imperfetto nel presente è lo stesso che lo aveva portato in seguito a ritrovarsi nella pittura neoclassica, ridisegnando il proprio rapporto con la Storia. Del resto, come rifletteva Maurizio Calvesi nel 1984 nell’introduzione di Anacronismo/Ipermanierismo, «la storia, già “maestra di vita”, è rimossa dalla società del consumo in quanto estraneità di un mondo assolutamente diverso dal nostro».

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