Marialba Russo con la fotografia attraversa la ricerca antropologica e gli anni 70, un periodo carico di fermenti politici, culturali, lotte operaie e lotte femministe. Negli anni 90 approda a una fotografia Poetica, metafora di un tempo inconscio. A settembre parteciperà a una mostra collettiva in Francia. Attualmente sta lavorando a due volumi di prossima pubblicazione. L’intervista s’è svolta in maniera discorsiva, prediligendo l’oralità alla scrittura.

L’ultima pubblicazione, «il Giorno il Gioco il Sogno», narra della vita contadina. C’è sempre un legame forte con la civiltà rurale, i simboli, le magie, le feste, nonostante rechino i segni di emarginazione, strumentalizzazione e annientamento da parte della classe egemone?
«Il Giorno il Gioco il Sogno» sono tre racconti nati durante i miei viaggi. Il primo, il giorno di Antonia, racconta la giornata di una donna, del suo lavoro di contadina che inizia al mattino presto e che si misura con grande forza con quello che è il suo mondo: il pollaio, gli animali, nutrire per mangiare e vivere, e prosegue fino all’imbrunire, dove ancora va a controllare due vitellini che pascolano su una collina. M’ha detto di non riprenderla perché non si sentiva bella; ho fotografato il suo fare, il suo dire pieno di simboli e mistero. Mi riportava quasi a una memoria, a una mia memoria, agli ultimi momenti di vita contadina assorbita e rimossa quando la tecnica prendeva il sopravvento con gli anni del grande sviluppo industriale e trionfo del consumismo, dove sono subentrati altri valori, altre esigenze, altre modalità ben avvalorate da media compiacenti e questo mondo è andato via via perduto.

Mi hai parlato di un quaderno che dovrebbe essere pubblicato a fine anno e che illustra un rito di iniziazione da te realizzato nel 1979. Puoi anticipare qualcosa?
Tanto cercato dagli antropologi, sembrava ormai scomparso da tempo. Il libro, che fa parte della collana ‘i Quaderni dello Sguardo’ dal titolo Il Passaggio, sarà pubblicato a dicembre da Postcart edizioni. È un rito di guarigione o iniziazione. Su una montagna ai confini con la Basilicata c’era questa persona che officiava il rito, lui e il figlio. Scelto un albero nella foresta, lo divideva in due senza farlo spaccare, altrimenti il rito non si poteva più fare; i genitori facevano passare il figlio in questa fessura per tre volte; ogni passaggio era accompagnato da un urlo che simulava l’entrata e l’uscita dal ventre materno.

Cosa ricordi degli anni 70? Un periodo carico di fermenti politici, culturali, rivendicazioni sociali, lotte operaie, liberazione sessuale, lotte femministe. Cos’è rimasto di queste conquiste?
Gli anni 70 sono stati anni fondamentali e irripetibili. Anni che hanno delineato tutto quello che è accaduto poi. Erano anni di grande presenza politica, di cambiamento che prendeva tutto: cambiamento culturale, sessuale e femminismo. Anni che hanno segnato profondamente. L’arte che s’è espressa decontestualizzava tutto, anche quello che precedentemente aveva detto e fatto, quasi un nuovo inizio.

Il bianco e nero è il tuo codice espressivo, ma nel libro Il ritratto di me sono riunite fotografie colorate a mano. Un esperimento per rievocare qualcosa di autobiografico?
Ho lavorato a questi miei ritratti un po’ anche per gioco, con interventi a volte dissacratori sul mio corpo, sul mio volto. Questi lavori appartengono agli anni 70, riflettono vita e pensiero, quello che abbiamo cercato come cambiamento e come libertà. È un volto che ha immaginato un colore, che poi non è un colore, è il bianco e nero nella sua struttura interna che si trasforma, diventa altro, assorbe, dice e si contraddice, si fa tempo e sentimento.

Negli anni 90 analizzi ciò che il soggetto esegue dentro e oltre sé stesso; una trilogia iniziata con l’«Incanto», proseguita con «Confine» e chiusa con il terzo volume di prossima pubblicazione. Si può considerare una riflessione intima e analitica, dove il panorama è metafora di un tempo inconscio?
Secondo me sono una conseguenza, un percorso di vita, un procedere in avanti, dove racconto di volta in volta me di fronte alla realtà, me di fronte a me stessa. Voglio ricordare alcune parole del mio caro amico Goffredo Fofi: «La fotografia di Marialba è quella di inquietarci e farci ragionare, vedi l’attimo, il movimento, l’azione, va verso la poesia, verso la filosofia, scivola sempre fuori anche dalla stessa fotografia, è come Bacon che si tirava fuori dal quadro, o Carmelo Bene a teatro che diceva «Io devo sparire, non riempire la scena, devo riempirla con la mia assenza». Come la poesia sono versi che messi assieme producono un poema, come in certi grandi poemi del 900, densissimi di pensiero, di riflessioni. È che lei è un poeta. Punto e basta». Se nel primo volume, l’Incanto, è una visione dell’inconscio, questo guardarsi dentro diventa un precipitare dove si stabilisce un tempo. Il mio tentativo estremo è stato dare un tempo al tempo. Tutti e tre i volumi sono caratterizzati da una fuga e da un sogno. Nel secondo, Confine, è quella di un animale che cerca la libertà, è una sequenza di libertà e violenza. Il terzo, invece, investe una mente artificiale che anch’essa compie una fuga oltre sé e riesce a sognare.

Esaminando il tuo tragitto artistico iniziato negli anni 70, emerge la determinazione di tessere una storia per immagini percepita sia come sollecitazione all’analisi, sia come epifanie tra conscio e inconscio, tra verso poetico e scatto. Si può interpretare come un’esperienza poetico-visiva dov’è sempre presente un approccio antropologico?
Sì. In fondo io dalla realtà prendo i segni, ciò che si pone tra le cose. Poi non dimentichiamoci che io mi occupo di realtà e di sociale. Siamo partiti da una netta differenza che ho provato a individuare, cioè una fase antropologica, una fase di crolli nei Fasti Moderni e una fase finale di poesia. Eppure questi attraversamenti sono accomunati da un unico elemento: la mia visione non emerge mai nella sua pienezza, ma si pone negli spostamenti a vuoto, in ciò che sta per accadere e non è ancora accaduto, nelle sospensioni, nelle fessure, nei frammenti. Ogni volume della Trilogia si rivolge soprattutto a uno strato profondo, sotterraneo, al di sotto della superficie, che porta un qualcosa a interrogarsi su qualcosa che non ha per il momento ancora la parola, o a vedere per la prima volta qualcosa che non è mai stata percepita prima. Si sprofonda e si emerge, o si entra in un altro confine che s’innesta con la natura, la materia e la luce che scopre.

Cosa ha significato per te la mostra «Soggetto Nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985», tenutasi al Centro Pecci di Prato da dicembre 2018 a marzo 2019? Ha raccolto per la prima volta i tuoi scatti, quelli di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano.
È stata un’esperienza bella, un lavoro tutto al femminile. Di questi tempi dovremmo muoverci un po’ di più. È venuto fuori un ritratto significativo di quegli anni. Per la prima volta ci siamo ritrovate a lavorare insieme su un soggetto, l’identità femminile, con lavori molto diversi tra loro che rappresentano bene l’individualità che s’esprime nei vari modi e nei vari luoghi del sociale, nella riappropriazione e nelle appartenenze che possono convivere nello stesso soggetto come pensiero della differenza, come soggetto nomade. Ideata da Cristiana Perrella e Elena Magini, che gestiscono il Centro Pecci a Prato, ne viene fuori una lettura anche di documento storico.

Quali sono i progetti in cantiere?
A settembre una mostra in Francia. Io sono stata chiamata per l’Italia. Siamo nove autori di nazionalità diversa a lavorare su un tema unico. Menzioniamo, tra gli altri, Tono Arias e Marie Losier.