«Signor Bachmann» del suo film Maria Speth lo conosceva da lungo tempo, «un’amicizia di quarant’anni» dice la regista tedesca. Incontro su zoom come con tutti in questa Berlinale 71 che ci fa apparire gli autori in un frame diverso: non più red carpet o lounge festivaliere ma finestre, pareti, raggi di sole che fanno da sfondo alle conversazioni portandoci in giro per il mondo. Strano, a suo modo anche bello se non fosse per costrizione.

Chi è dunque il signor Bachmann? Un insegnante che incontriamo insieme alla sua classe in Herr Bachmann und seine klasse con cui Speth ha vinto l’Orso d’argento – Premio della giuria della Berlinale 71 (online), chiusa ieri: dall’autunno all’estate entriamo nella 6b della George Büchner a Stadtallendorf, città industriale nel nord dell’Assia di immigrazione operaia prima italiana e greca, poi turca e nel tempo da molti altri paesi, dove oggi il 25% degli abitanti non ha la cittadinanza tedesca. Nel corso di un anno scolastico seguiamo la vita quotidiana di questa classe che è l’ultima prima del passaggio alle superiori, assistiamo alle lezioni, scopriamo i metodi di Bachmann ma soprattutto la sua capacità di costruire giorno dopo giorno coi ragazzi un sentimento di comunità che dallo spazio ristretto di quelle mura può arrivare all’esterno, nella loro realtà familiare, sociale, di futuro.

Lui, Bachmann con in testa l’inseparabile zuccotto ci appare subito come una figura speciale: ironico, empatico, sensibile ascoltatore nell’insegnamento utilizza strumenti diversi, ai ragazzi al mattino permette di dormire qualche minuto ancora appoggiando la testa sui banchi, chiede il silenzio prima di sedersi, se gli sfugge il significato di una parola utilizza i suoni musicali per spiegarglielo. Si balla, si canta, si suonano la chitarra e la batteria, si parla tutti assieme. Li lascia liberi di discutere, è attento al racconto dei loro problemi – con i genitori, con sé stessi – scherza, si mette in gioco senza però mai dimenticare il proprio ruolo: lui è l’insegnante, loro gli studenti, questa cosa è chiara e definita permettendo un’amicalità profonda che altrimenti sarebbe impossibile. Ci crede Herr Bachmann nel suo lavoro, e ci mette l’energia di un’esistenza di cui sappiamo poco, qualche accenno nelle chiacchierate coi colleghi; è cantante, scultore, suona la chitarra, è qualcuno che ha lottato. Poco importa se non che questo suo essere è tutto nel suo insegnamento.

La sua classe, come la città, unisce ragazzi che arrivano da molti luoghi e culture e religioni, Bulgaria, Sardegna, Brasile, Marocco, Russia, Turchia: ognuno con sé porta la propria educazione, e anche i propri pregiudizi, ciò che separa, molti parlano poco o per niente il tedesco. Come incontrarsi? Cosa insegnare? È su questo che lavora Bachmann – e con lui Speth nel film – perché ciascuno all’interno della classe (e fuori) riesca a trovare un suo spazio e fiducia in sé. «Questi voti non siete voi» dirà ai ragazzi l’ultimo giorno Bachmann. Hanno attraversato insieme quasi un’epopea, hanno riso, pianto, discusso, si sono incontrati imparando a partire da un’esperienza comune il rispetto reciproco e di sé, il dialogo, la «materia» dello studio che non è solo il programma scolastico ma i sentimenti, il vissuto, la possibilità di mettersi in discussione e di confrontarsi – anche nelle «tradizioni» che gli appartengono: un’inclusione reale da cui partire.

Come è arrivata alla classe di Herr Bachmann?
Ho iniziato a lavorare a un progetto su Stadtallendorf che per me rimane un punto di riferimento centrale nel film. É una città con una storia unica in Germania, era un villaggio di agricoltori in mezzo al nulla finché i nazisti, durante la seconda guerra mondiale, la trasformarono nel più grande centro di produzione di munizioni in Europa, grazie anche alla sua posizione geografica nel cuore della Germania, che gli permetteva di nascondere gli edifici agli occhi del aerei nemici. Così cominciò a arrivarvi molta gente, li portavano lì a forza, anche dai campi di concentramento – c’erano migliaia di operaie ebree. Alla fine della guerra visto che erano rimasti in piedi gli edifici industriali sono stati riconvertiti diventando uno dei poli dell’economia post-bellica tedesca di ricostruzione e rilancio economico. A Stadtallendorf si stabilirono tutti quelli che erano scappati dalle zone della ex-Germania est, e poi dagli anni Sessanta sono iniziate le prime ondate di immigrazione operaia che continuano – da diversi paesi – fino a oggi, e che l’hanno resa un luogo multietnico. È un aspetto molto interessante, perché di solito si ritrova nelle grandi metropoli e questa è invece ancora una piccola città ma con un polo industriale enorme, per strada si respirano l’odore di cioccolato e di acciaio.

E poi cosa è accaduto?
Sono andata a trovare Bachmann a scuola, quando ho visto la sua classe ho capito che era il microcosmo in cui realizzare ciò che avevo in mente: nella sua classe si riflettevano la storia e il presente della città. Andando avanti in questa direzione lui è divenuto il protagonista perché è una persona meravigliosa e il suo modo di lavorare esprime una visione senza pregiudizi della realtà, la stessa che cerca di trasmettere ai suoi studenti.

Filmare una classe è sempre una prova difficile per il cinema a cominciare dalla scelta del punto di vista.
Per me è stato quello dell’osservazione. Mi sono concentrata su Bachmann a lavoro, ho trascorso con lui in classe moltissimo tempo, alla fine avevo circa 200 ore di girato, l’organizzazione dei materiali e il montaggio sono stati delle fasi molto importanti. Ho iniziato seguendo la cronologia dell’anno scolastico, dall’inverno all’estate, su cui ho cominciato a sviluppare una drammaturgia. Era un periodo ampio, che conteneva in sé molte sfide: mi chiedevo come mantenere il ritmo unico delle lezioni, in che modo dare rilievo agli elementi essenziali, come inserire le persone/ personaggi con la giusta attenzione nei loro confronti. Alla fine avevo un primo rough cut di venti ore da cui sono arrivata a uno di otto e infine alla forma attuale di tre ore e mezza. Ci sono molte scene che ho lasciato fuori, gli incontri e le discussioni coi genitori, e all’inizio avevo filmato in classi diverse, ma poi ho capito che dovevo rimane solo nell’universo della classe di Bachmann. Non mi interessava un film sulla scuola o sul sistema educativo, volevo mostrare questi fantastici ragazzi che mi hanno fatto un magnifico regalo, verso i quali avevo una enorme responsabilità; e attraverso le loro esperienze la storia della città a cui appartengono e come quell’aula diviene un luogo in cui acquistare fiducia in sé stessi per trovare un proprio ruolo nel mondo.

Bachmann lavora sul rispetto reciproco, sull’inclusione e sulla convivenza tra culture diverse che imparano durante l’anno scolastico a stare insieme.
Ognuno deve chiedersi cosa vuole essere, nella società è una domanda importante. La scuola è un passaggio centrale in questo processo di formazione delle personalità. I ragazzi nella classe di Bachmann vengono da paesi diversi, alcuni parlano male il tedesco, sono figli di un’immigrazione per lo più operaia ma quello che lui gli offre sono piccoli momenti in cui tutti loro, al di là del futuro scolastico, se continueranno gli studi o meno, vengono messi in luce nella loro singolarità e nelle loro doti. L’ambiente che crea intorno a loro è positivo, li mette a proprio agio, li fa sentire sicuri, e solo così si può davvero imparare qualcosa.