Con una selezione delle loro opere dagli anni Settanta a oggi, è in corso la prima retrospettiva italiana di Maria Klonaris e Katerina Thomadaki, artiste pluridisciplinari le cui opere sono state esposte nei principali musei del mondo, tra cui il Jeu de Paume, il Musée d’Art Moderne e il Moma di New York, la Tate Modern di Londra.

La mostra Klonaris/Thomadaki, Corpi in rivolta, in videogallery, è visitabile fino al 19 di giugno al Maxxi di Roma secondo una serie di cinque cicli di proiezioni.

La curatrice della retrospettiva è Giulia Simi, ricercatrice e docente nel Dipartimento di scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari e parte del network di ricerca Fascina – Forum delle studiose di cinema e audiovisivi.

Il percorso di Maria Klonaris e Katerina Thomadaki comincia alla fine degli anni Sessanta, ad Atene durante la dittatura militare del Regime dei colonnelli, sfociando nel 1975 a Parigi: la città che insieme scelgono di abitare. Parigi le «abita» attraverso il cinema sperimentale, la body art e il fermento dei movimenti femministi. Passando dal teatro arrivano al cinema, che diventa luogo di una radicalità che parte dal corpo.

È infatti tramite quello che le due artiste chiamano il Cinéma corporel che il filmarsi reciproco si afferma come atto del vedere e riconoscere l’altra, reinventando una grammatica dei corpi che si intrecciano in continuità relazionale.

Come scrive Giulia Simi, «il dialogo tra i corpi, i media, la natura e la tecnologia, diviene sempre di più il nucleo di una resistenza politica che, a partire dalla riflessione e la pratica femminista, reinterpreta l’immagine cinematografica come etica della relazione e la sceglie come spazio di disobbedienza».

Nel loro procedere in quella che è diventata una genealogia filmica lunga cinquant’anni, Maria Klonaris e Katerina Thomadaki hanno disegnato un arcipelago di stelle da cui emergono le mitologie delle culture arcaiche e periferiche del Mediterraneo, ma anche soggetti desideranti femminili e transgender – soggettività sospese in un tempo al di là del tempo, in un dialogo cantato con quell’universo spazioso che insieme alle Pulsar e i Quasar contiene i nostri corpi in rivolta.

Katerina Thomadaki, la vostra pratica, la sua e quella di Maria Klonaris, è plurale, in senso dialogico. Può spiegarci cosa significa la scelta di andare oltre la nozione di autore unico? Quali sono gli obiettivi di questa pratica?

Questa pratica non si è imposta subito. Nel gruppo teatrale che abbiamo formato ad Atene nel 1968 abbiamo firmato separatamente. Maria Klonaris ha disegnato le scene e i costumi e io ho fatto la messa in scena. Ma il nostro teatro sperimentale si è radicalizzato al punto da mettere in discussione componenti fondamentali come la pièce, che nei primi anni ’70 abbiamo sostituito con le esperienze corporee, prima di scoprire la body art a Parigi.

La nostra co-firma compare con il film Double Labyrinth (1975-76). È stato un gesto etico e politico: è venuto da due donne che hanno messo in discussione rapporti di potere e gerarchie, specialità e ruoli. Ormai lavoravamo insieme «collettivamente» attivando l’intero spettro delle nostre rispettive potenzialità.

I contributi concettuali, plastici e tecnici si intrecciano e provengono indifferentemente da una, l’altra o entrambe. Eravamo consapevoli che in questo processo era decisivo il fatto che fossimo due artiste donne con uguali forze e rivolte. Tuttavia ciò non sarebbe stato possibile senza la straordinaria comunità di visioni che abbiamo scoperto quando ci siamo incontrate.

Dagli anni ’70 e ’80, avete realizzato i vostri primi film sperimentali con una fotocamera Super 8, assumendo tutte le fasi della produzione per essere indipendenti dall’industria cinematografica. Quali erano e quali sono i limiti di questa dipendenza in termini di creazione, ma non solo?

Siamo state delle cinefile precoci. È guardando i film che abbiamo imparato a conoscere l’immagine cinematografica. Siamo stati segnate, tra l’altro, dall’espressionismo tedesco, da Bergman e dai grandi registi italiani del dopoguerra.

Ma questi registi non ci hanno fatto sognare di fare film. Sapevamo che l’industria cinematografica era un campo di dipendenze violente che ci ripugnavano. Ed eravamo allergiche alla dominazione maschile che affliggeva tutti i sistemi artistici – palese nel cinema, ma anche nel teatro e nelle arti plastiche.

È stato grazie alla scoperta del cinema sperimentale americano che abbiamo iniziato a fare film indipendenti. All’industria cinematografica abbiamo contrapposto un pensiero visivo non soggetto alla narrazione e ai suoi canoni e un cinema artigianale vicino al corpo.

Il Super 8 è stato fondamentale per questo data la sua economicità e facilità d’uso. Lo rivendicavamo come strumento politico di creazione. Esplorando il potenziale visivo del Super 8 abbiamo articolato il linguaggio sensoriale del cinéma corporel. Naturalmente, stare al di fuori del settore riduce la visibilità del pubblico. Ma ci ha permesso di ottenere la visibilità che contava per noi: una visibilità di presenza, di vicinanza, di lotta, di condivisione, di intensi dialoghi con il pubblico — la vita pulsante delle nostre visioni in un presente scosso dai movimenti sociali. I nostri dialoghi con il pubblico femminista ci hanno aiutato ad affilare le nostre armi.

Può raccontarci i termini del vostro rapporto con le teorie femministe francesi della seconda ondata, attraverso alcune figure chiave come Luce Irigaray, Hélène Cixous, Monique Wittig, Julia Kristeva?

Abbiamo scoperto le teorie femministe dopo l’atto fondatore del cinéma corporel che era Double Labyrinth. Certo, queste pensatrici ci hanno affascinato e hanno rafforzato le nostre ricerche. La differenza fondamentale era che esse operavano nel campo del linguaggio, mentre noi operavamo nel campo dell’immagine, un’immagine cinematografica in rivolta contro «i meccanismi di asservimento della mente e del corpo».

Con Double Labyrinth e i successivi lavori della Tétralogie corporelle abbiamo costruito la teoria dell’«actante» in contrapposizione all’«attrice». Il corpo dell’actante è un corpo femminile autonomo, mai oggetto, cioè gestito e sfruttato da un terzo. L’actante incarna la propria immaginazione sullo schermo, agisce in suo nome. È tutto e per tutto un soggetto guardato.

Nel «Ciclo di Unheimlich» prodotto in Super 8 (1977-82), figure della mitologia mediterranea, come la dea Astarte, rivelano una soggettività potente e metamorfica al confine tra maschile e femminile. Ma c’è anche (nel «Cycle de l’angel|») l’immagine ricorrente e archetipica dell’angelo in-beetwen (transgender). In che modo, nelle vostre opere, queste rappresentazioni prefigurano o si combinano con il postumano?

Non direi che prefigurano il postumano, almeno non quando il postumano implica un potere illimitato della tecnologia sulla natura, alimentato dal tecno-capitalismo contemporaneo.

I nostri percorsi sono diversi. La nostra visione del femminile «perturbante» è infatti radicata nelle mitologie mediterranee pre-patriarcali di cui siamo eredi, ma anche in altre fonti, senza dimenticare le culture sciamaniche dei primi popoli miracolosamente sopravvissuti ai genocidi e che ci trasmettono un sacro abitato da trance, metamorfosi e incroci di mondi umani e non umani.

La persona intersessuale che abita il Cycle de l’Ange non è né un costrutto postumano né un essere metafisico. L’abbiamo incontrata nelle cartelle cliniche. È un vero corpo umano, che ha vissuto e sofferto della sua differenza.

Abbiamo visto in questo corpo una bellezza travolgente, un orgoglio, un silenzio irradiante. L’abbiamo chiamato Angelo e corpo dissidente e il nostro rapporto con tale entità è durato per decenni e dura ancora. Come diceva Maria «è una figura emblematica che lega memoria e archetipi con la contemporaneità, con le crisi attuali delle identità sessuali».

Nei video digitali «Quasar» (2002-2003) e «Pulsar» (2001) l’universo e il suo respiro si muovono attraverso i vostri corpi…

Questa volta lascio che Maria Klonaris risponda. Ecco cosa ha detto in un’intervista del 2005: «In questo momento ci troviamo in una regione liminale del Cycle de l’Ange. Creiamo una serie di opere che chiamiamo «extragalattiche». Pulsar e Quasar ne fanno parte. Colleghiamo i nostri volti con i fenomeni astrali. La figura dell’Angelo appare qua e là, ma quello che ci interessa è il divenire angelico. Il fatto di essere in bilico tra mondi, tra assenza e presenza, tra tempo e cancellazione del tempo. Sono visioni cosmologiche che si traducono in un lavoro plastico su energia, radiazione luminosa, visione, chiaroveggenza e fluttuazione».