Dei numerosi romanzi e racconti di Maria Giacobbe ho un’immagine in particolar modo stagliata nella mente, quella dell’arrivo del bastimento della terraglia con cui si apre il suo bellissimo Il mare, del 1967, riproposto da Il maestrale nel 2001. Il bastimento, racconta la voce di Rosa, ragazzina sulle soglie dell’età adulta, arrivava una sola volta ogni estate dal mare che «si accendeva delle sue vele grandi, numerose e multicolori, (…) poi avvicinandosi diventavano sempre più gloriose man mano che i colori si rivelavano nelle loro differenze e nel loro splendore. I fiocchi erano color arancio e le vele centrali azzurre dipinte di ruote e margherite bianche e gialle».

La visione di tanto splendore ha come corollario un approdo assai casalingo, perché il veliero, una volta arrivato in porto, diviene una casa galleggiante, con tanto di trecce d’aglio e cipolle appese insieme a barattoli con piantine di basilico e prezzemolo, pure se la fantasia dell’adolescente, che legge sempre troppo come le rimprovera la madre, favoleggia di passati bucanieri e pirateschi. Le terraglie vendute sulle vele distese a terra sui ciottoli dai marinai splendono però meravigliosamente: boccali a strisce gialle e nere «come corpi di vespe», tazze bianche decorate di «fiori ciliegie circoli nelle quali la mattina il caffellatte aveva un sapore migliore».

LA COLAZIONE con le terraglie colorate sulla veranda aperta sul mare e le dune increspate di azzurro è quanto di più riconoscibile delle vacanze dell’infanzia di ognuno, quelle di Maria Giacobbe in un’isola che è la Sardegna in cui è nata e cresciuta fino al suo trasferimento per motivi familiari nel 1957 in Danimarca, ma esse appartengono alla memoria di un tempo, splendido e atroce per il senso di avventura e i dolori che si vivono in modo tanto acuto da parere intollerabili, attraverso cui passiamo tutti.

Tenere tra le proprie mani la terraglia concreta del vivere e darle un senso grazie alla sua scrittura: questo è quello che Maria Giacobbe è riuscita a fare nelle sue opere, coniugando in esse in modo sovrano il registro dell’incanto, e al tempo stesso tragico a suo proprio modo dell’infanzia e del divenire donne e uomini, di cui la Sardegna diviene terra d’elezione. Lo ha fatto abitando con padronanza piena due lingue diverse, l’italiano e il danese in cui Maria Giacobbe scriveva correntemente, a volte anche la prima redazione di opere poi (non tutte) tradotte in italiano da lei stessa.

Ho scritto due lingue, in realtà avrei dovuto scrivere tre lingue, perché la lingua regionale della Sardegna è presente già nel Diario di una maestrina, sua opera prima pubblicata nel 1957 da Laterza e vincitrice del premio Viareggio. Opera, in cui racconta la sua esperienza di ragazza di buona famiglia nata a Nuoro, che diviene maestra nell’immediato dopoguerra conoscendo, così, quella sorta di «noviziato vagante», come lei lo definisce, che è ancora oggi il periodo delle supplenze, e attraversando la scuola per adulti, la scuola dei piccoli paesi, e la scuola dello stazzo, ovvero quella che non ha altra aula che le stalle delle greggi.

IN FORMA DI DIARIO Giacobbe narra che cosa significasse essere donna in una società patriarcale, di cui incarnava però le fattezze istituzionali: sebbene la «maestrina» del titolo abbia un risvolto ironico ma non certo in termini dimidiati, il ruolo della maestra poneva al di là del vivere comune l’astrattezza del lavoro intellettuale come elemento distintivo, rivendicata dall’Istituzione nella figura dell’Ispettore di turno.

Di fatto la scuola, nonostante tutto si faccia perché così non sia, è luogo di relazioni tra differenze positive e propositive: in questo libro, per molti versi senza tempo nonostante i suoi quasi settant’anni, Maria Giacobbe descrive molto bene come e quanto l’ascolto attento dell’altra e dell’altro, anche quando piccoli e soprattutto perché piccoli, cambi chi ascolta tanto quanto chi ha modo così di esprimersi, in dialetto o in lingua italiana non importa. A cambiare è lei per prima però, che scopre così il lavoro minorile nei campi e nelle stalle e nella forma dell’aggiudu, ovvero la servitù femminile che dà aiuto casalingo in cambio di vestiario smesso e un po’ di minestra, una sorta di schiavitù.

NELL’ITALIANO MEDIO colto del diario cominciano quindi a fare capolino i detti popolari e in classe maestra e allieve lavorano insieme a un vocabolarietto italiano-fonnivese, perché «L’italiano è poi per tutti i bambini sardi cresciuti nelle zone rurali una lingua straniera» e vi è da chiedersi se non si potrebbe fare altrettanto nelle classi con tanti studenti figli e figlie della migrazione. Ma soprattutto la protagonista fa scelte minime ma rivoluzionarie ancora oggi, perché decide di promuovere il ragazzino di nome Don Coco nonostante gli errori, nonostante non studi, ma ha scritto un bellissimo testo sul sole e la luna e ha vinto la sua battaglia col pensiero scritto: approvato, ovvero promosso.

La lingua della Sardegna arriva fino a dare titolo a Pòio Luàdu, del 2005, termine che, come scrive lei stessa nell’introduzione intitolata «Storia di un nome», nella lingua antichissima locale sta a significare una pozza d’acqua avvelenata, segno e simbolo di una terra maltratta da tutti, tanto quanto la memoria collettiva, instancabilmente ripercorsa in modo vivido dalla scrittrice in Piccole cronache (1961), Le radici (1975), Maschere e angeli nudi (1999), nelle sue componenti di memoria di famiglia perseguitata in quanto antifascista, ma in realtà memoria di un popolo tutto, sardo e italiano, tradito da un dopoguerra e una ricostruzione che non ha mantenuta alcuna delle sue promesse.

Cristallina nella scrittura di Maria Giacobbe la consapevolezza dell’ingiustizia di classe, coniugata alla consapevolezza della differenza femminile: le donne nelle varie età della vita abitano i suoi racconti e romanzi in modo sempre attento e problematico, con una forza pensierosa che ha nella tormentata figura della dottoressa Rudas del bellissimo romanzo Gli arcipelaghi (1995) un ritratto teso a scandagliare che cosa significhi legge e giustizia senza che si tenga conto delle vite, delle storie, delle geografie emozionali che fanno del territorio italiano un arcipelago complesso in cui tante sono le isole, non solo in senso territoriale; non risolte però dall’attuale autonomia differenziata, si vorrebbe aggiungere sommessamente pensando che Giacobbe sarebbe stata probabilmente concorde e d’altra parte molto si è schierata nella sua vita anche attraverso il giornalismo militante.

CONSAPEVOLE, comunque e sempre, Maria Giacobbe del filo di continuità con quante l’hanno preceduta, a partire da Grazia Deledda, con cui ha condiviso un percorso di allontanamento dalla Sardegna continuando però a scriverne per tutta la vita. Alla scrittrice premio Nobel nel 1926, ancora oggi piuttosto invisa alla critica letteraria nazionale che la riscoprirà sempre troppo tardi, Maria Giacobbe ha dedicato un libro fondamentale nel 1974 intitolato Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna. Perché introduzione? Perché Giacobbe in esso decostruisce lo «scandalo» Deledda riattraversando tutto l’a lei contemporaneo dibattito critico, che la avversò strenuamente sostenendo che scriveva male, sottolineando invece quanto e come la sua appartenenza alla storia e alla letteratura dell’isola Sardegna costituisca piuttosto un valore aggiunto per il senso profondamente etico e morale della sua visione del mondo, necessaria non solo alla Sardegna ma alla letteratura italiana tutta.

Non a caso Giacobbe si sofferma su quanto la Sardegna sia esempio simbolicamente importante del colonialismo interno esercitato dallo Stato e da una classe dirigente rapace che continua a non cessare di appropriarsene. Deledda è quindi, scrive Maria Giacobbe, un’eredità da raccogliere: cosa che Maria Giacobbe ha fatto nel suo modo originale e proprio, e a lei si sono uniti molte e molti altri.