Margherita Panizon: «Il documentario è la mia forma di liberazione»
Margherita Panizon
Visioni

Margherita Panizon: «Il documentario è la mia forma di liberazione»

Intervista La regista racconta il percorso che ha portato al corto «Come le lumache», in programma il 30 ottobre alla rassegna Venezia a Napoli
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 ottobre 2022
«Come le lumache»

Dentro a un bosco, tra alberi, pietre e ruscelli, c’è un ragazzino in limite di genere che danza. Ascolta la musica in cuffia e si muove al ritmo, sinuoso e senza filtri, come se la natura lo proteggesse dal resto del mondo di fuori. Qui, in mezzo agli insetti e a colori inebrianti, può essere libero. Inizia così Come le lumache, corto di Margherita Panizon presentato alla Settimana della critica di Venezia e ospite il 30 ottobre a Venezia a Napoli, rassegna tra le diverse sale della città, ideato da Antonella di Nocera, alla sua dodicesima edizione. Panizon, 33 anni, nata a Trieste, è tra le giovani registe nate dalla fucina creativa e produttiva della prima edizione di FilMap, scuola di documentario creata da Parallelo produzioni con la supervisione di Leonardo Di Costanzo.

«HO SEMPRE voluto fare cinema: da quando mia mamma da piccola mi leggeva le storie, ho voglia di raccontarle. Poi ho scoperto di essere dislessica: il linguaggio visivo è quello a me più vicino. Durante gli anni all’università avevo iniziato ad avvicinarmi al mondo del documentario a me sconosciuto. Con Di Costanzo come direttore scientifico e insegnante del corso è partito tutto». Tra i suoi primi lavori, il medio metraggio documentario Non può essere sempre estate, in cui la regista ha seguito un gruppo di adolescenti nella periferia est di Napoli durante l’allestimento di uno spettacolo teatrale, «riscrivendo le scene, i ragazzi raccontavano spaccati delle loro vite». Panizon ha continuato a esplorare la forma documentaristica in situazioni complesse come quella della periferia di Trieste o nel carcere di massima sicurezza di Viterbo. Qui è nato La vasca del capitone – Appunti sul carcere. «Con Sabrina Iannucci, co-regista, l’idea era provare a raccontare un luogo attraverso gli occhi di chi lo abitava – i detenuti – e di chi lo vedeva per la prima volta, cinque studenti universitari selezionati da noi. I laboratori di documentario sono una forma terapeutica di cinema: si lavora insieme, si crea un forte contatto tra i partecipanti, i risultati del lavoro sono concreti. Si tocca con mano cosa può creare il cinema».

Il protagonista va nel bosco perché sa che in quel luogo può essere se stesso, nella forma che preferisce. Da lì ho costruito i temi che volevo trattare, senza fare degli statementMargherita Panizon
Come le lumache è il primo esperimento di finzione di Panizon. «Dopo aver trascorso molto tempo su diversi set, volevo provare a mettermi in gioco. Un pomeriggio mi stavo arrovellando su che storia volessi raccontare e ho deciso di andare a fare una passeggiata per sciogliere la matassa che avevo in testa. Ero a Roma, nel mio quartiere, Tor Pignattara. Passando davanti a un negozio ho visto una ragazzina, avrà avuto 12 anni. Ballava come una pazza, pensando di non essere vista. Da quest’immagine così liberatoria sono arrivata ai miei personaggi. Simone, il protagonista, va nel bosco perché sa che in quel luogo può essere se stesso, nella forma che preferisce. Attorno a questo ho costruito i temi che volevo trattare, senza fare degli statement». Immigrazione, solitudine, questione di genere. Un «coming of age» di due ragazzi che esplorano l’altro da sé, immersi in una natura totale, pura, fluida e avvolgente. «Abbiamo girato vicino Trieste, in Val Rosandra, una zona poco battuta perché poco agevole; abbiamo lavorato con macchina a spalla e luce naturale». Quando ci sentiamo, Margherita è appena tornata da un laboratorio di scrittura in Grecia. Con Marco Borromei, co-sceneggiatore di Come le lumache, è nel pieno del prossimo progetto.

QUESTA VOLTA si tratta di un lungometraggio. Lo sconsegnato, premio Solinas 2020, col sostegno di Doppionodo produzioni di Michelangelo Frammartino, Marco Serrecchia, Raha Shirazi. «È una storia che parla di solitudine e del rapporto tra uomo e natura. È ambientato sull’Asinara negli anni ’70, ai tempi della cosiddetta “sconsegna”: grazie alla buona condotta, i detenuti dell’ex carcere venivano liberati sull’isola, davano loro una casa e un lavoro agricolo. Io racconto di un detenuto analfabeta sardo a cui consegnano un asino e del rapporto simbiotico tra lui e l’animale. Questo personaggio cerca di seguire un percorso di umanizzazione ma poi in qualche modo si ribella e va in una direzione più “animalistica”. Mio padre è nato a Sassari, frequento l’Asinara da quando sono piccola. La prima volta che ho sentito parlare di questa storia avevo 16 anni e ho pensato che volevo raccontarla in un momento particolare della mia vita». La nostra chiacchierata si chiude con un augurio al gruppo di giovani documentariste che negli ultimi anni hanno reso vivo e interessante il panorama nostrano, con una piccola nota amara: «Meno male che ci siamo. Sarebbe più bello se riuscissimo a guadagnare facendo questo mestiere».

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