Nell’educazione sentimentale che viene dalla prossimità al mare e al vento c’è l’amore per l’altrove. La vita stessa diventa «crocevia di cammini», come ci diceva Edmond Jabès tratteggiando la sua poetica ospitalità. Nella personale dell’artista Nicola Maria Martino, «Mare di Levante», a cura di Antonello Tolve (fino a stasera nella sede romana della Fondazione Filiberto e Bianca Menna (Via dei Monti di Pietralata 16, www.fondazionemenna.it), si sente la stessa perdita d’orientamento che conosciamo andando sott’acqua o quando il sole ci acceca impedendoci di guardare. Come se l’occhio, affacciandosi a queste tele-finestre, si scoprisse a ricordare le visioni fantastiche che interrompono il reale, la virgola che accade nello spiraglio della persiana, l’andamento fantastico della memoria a ricordare la casa dell’infanzia.

È FATTA DI BAMBINI e di mare questa esposizione, e visitandola si ha come l’impressione di partire in vacanza nei giorni in cui abbiamo imparato, nostro malgrado, l’immobilità come stato inalterabile. La mostra affaccia ad est, si tinge di Mediterraneo e il Mediterraneo è sempre meridione, anche quando avviene a levante. E allora prende anche il passo di un altro modo di stare al mondo, più lento, ozioso, come gli anni Settanta dai quali questo artista arriva. Quando coraggiosamente smobilitò il concettuale per restituirci il pittorico, traccia materica di un esserci che è postura esistenziale, prima che artistica.

I COLORI SONO QUELLI delle isole, di muri scorticati dal sale, sono quelli immemori di un tempo vuoto, non conoscono la prestazione del gesto. Questi quadri accadono, con grazia. I più belli si chiamano cancellature e sembra che passino sopra all’impoetico di questo tempo. Prende anche parola Martino, con un esergo fuori quadro, lettering a parete: «Portami un fiore, portami l’ombrello, portami ancora storie (…). Ci offrivano piatti di Koran. Suoni orientali, arpe e mandole gareggiano nel vento e si festeggia. Si celebrano il pesco fiorito e i freschi fiori d’aprile».

DICHIARAZIONE di una poetica minima, stessa radice del concetto dell’arte povera: non sarà roboante la rivoluzione, non sarà fatta di pacchianerie, non avrà filo spinato tra il sentire e il capire. Sarà invece piena di «noi», delle minuscole cose che ci portiamo nelle tasche dei giorni, nelle sacche del tempo, in quell’infanzia che il sogno ci restituisce dilagata, con i colori pastello e gli aeroplani nel cielo di Nicola Maria Martino.