«Credo che il mio rapporto con Valerio Zurlini sia stato una sorta di filiazione». La voce calma, nitida, quasi atemporale appartiene a Marco Weiss, ai bagliori dei suoi ricordi, a quella straordinaria storia di educazione sentimentale e cinematografica sul set di Cronaca familiare. Marco Weiss nel ’61 era un giovane studente della Statale di Milano, ebbro di cinema e di desiderio di abbandonare il grigiore lombardo per guardare finalmente negli occhi quella sirena di celluloide che non faceva altro che chiamarlo a sé. Così, in breve tempo, Weiss si ritrova a fianco di Zurlini e quell’esperienza verrà rievocata molti anni dopo in un libro, pubblicato nel 1994, dal titolo Sinemà dove memorie e stili (autoritratto, diario, lettere, riflessioni) confluiscono, come affluenti. Sinemà si rivela dunque come opera fondamentale, vista la dolce franchezza che accompagna il ricordo del regista emiliano, per la descrizione armonica di un rapporto, intenso e conflittuale, che quasi sembra incarnare la lotta fra una nuova generazione di cinephiles e il cinema dei padri, anche se, per Toffetti, si trattava di affrancarsi dai «fratelli maggiori». Sono passati più di vent’anni dalla pubblicazione del libro e la recentissima retrospettiva che la Cineteca Nazionale ha dedicato al regista, all’interno della Festa del Cinema di Roma, sembra l’occasione migliore per approfondire con lo scrittore alcuni punti «oscuri» della sua cronaca…

Nelle prime pagine di «Sinemà», il produttore, che la sta aiutando a entrare nel mondo del cinema, le propone una serie di autori, tra i quali Florestano Vancini e Franco Brusati, ma lei insiste per lavorare con Valerio Zurlini. Cosa la spingeva a essere così risoluto e deciso?

Avevo visto da poco La ragazza con la valigia, un film che mi aveva davvero sconvolto, in senso buono, un po’ perché mi immedesimavo in Jacques Perrin, eravamo praticamente coetanei, e avevo trovato meravigliosa la Cardinale, ma soprattutto mi piaceva molto il modo di fare cinema di Valerio. Negli anni 60, il cinema italiano, a parte i «grandi», schierava una serie di giovani: Vancini, Rosi, Petri ma quello che mi affascinava di più era Valerio anche se, nello specifico filmico, non si ispirava ai «nuovi» francesi che tanto amavo.

Durante le riprese di «Cronaca familiare», comincia però a maturare in lei il desiderio di abbandonare il cinema «attivo»…

Le settimane sul set avevano un po’ sgretolato la visione «pura» che avevo del cinema e in più, poco dopo la fine delle riprese, mi ritrovai fuori dal libro paga. Così, al termine del film, rientrai a Milano all’università, per poi ricevere una chiamata di Tullio Kezich che da poco aveva aperto una piccola casa di produzione. Accettai di lavorare come assistente di Gianfranco de Bosio per il Il terrorista e fu un periodo meraviglioso perché Valerio aveva affittato a Venezia nello stesso periodo la casa di Wally Toscanini per iniziare a scrivere Paradiso all’ombra delle spade, un progetto che gli stava davvero a cuore. Abitavamo tutti insieme: io, lui, Jacqueline Sassard e Jacques Perrin che recitava ne Il fornaretto di Venezia di Duccio Tessari. Due mesi e mezzo alla grande insomma, vivevamo praticamente all’Harry’s Bar. Valerio però arrancava nella scrittura e così, anche per motivi personali, ritornai a Milano e all’università, con suo enorme disappunto. Non capiva la mia scelta, la mia volontà di studiare e capire, lui non era un teorico ma un uomo dei sentimenti, voleva che vivessi, nel vero senso della parola.

Dopo il suo ritorno a Milano dunque, i rapporti praticamente si azzerano…

Valerio mi voleva molto bene e io ricambiavo ma litigavamo molto, probabilmente troppo perché, nonostante la mia età, non mi facevo mettere i piedi in testa dal punto di vista culturale. Quando parlava di pittura ascoltavo e imparavo ma se parlava di letteratura mi ribellavo. Il mio ritorno a Milano lo prese come un abbandono e da quel momento i nostri rapporti cessarono anche se la sera in cui il telegiornale annunciò la sua morte, ricordo di essere stato davvero male. Qualche anno dopo avvenne una sorta di riconciliazione definitiva «post mortem» quando conobbi Adolfo Conti e collaborai con lui per la realizzazione del documentario Gli anni delle immagini perdute.

Nei suoi ricordi, Zurlini, oltre a lunghe discussione sulla pittura, ogni tanto la incalzava politicamente. Sappiamo che negli anni successivi lei è stato fortemente schierato a sinistra ma all’epoca di «Cronaca familiare», le sue inclinazioni erano ancora «tenui». Zurlini è stato in grado di darle un imprinting anche politico?

Non esattamente anche se Valerio faceva parte di quella di schiera di intellettuali che davano la loro disponibilità al PC. Non era iscritto, non era un Montaldo o un Maselli, aveva molti amici ma non era un ideologo, il suo era un moto quasi sentimentale, era un tolstojano, sempre dalla parte dei deboli, con una venatura di «pietas» cattolica. Condividevamo questa afflato anche perché la mia è stata una formazione gesuita, anche se ero perennemente candidato all’espulsione. All’epoca ero ancora «incerto» ma sicuramente sensibile ai richiami della sinistra. Diversamente dall’arte e dalla pittura però non c’è stato un imprinting politico anche perché lui dava un po’ per scontato che la gente attorno a lui fosse tutta di sinistra.

Dopo la laurea e molti anni di lavoro come imprenditore, finalmente approda alla scrittura…

Dopo Sinemà. volevo scrivere un libro sui maledetti anni ’70. Ho cercato di fare una storia «compiuta» ma non ci sono riuscito e così ho fatto una specie di notes degli avvenimenti, dei ritratti, una specie di diario corposo. C’è pure una lettera fondamentale di Rossana Rossanda quando voleva convincermi a fare l’amministratore de Il manifesto. Ora è pronto un nuovo romanzo, la mia storia nel mondo dell’economia e delle multinazionali. Si intitola I calabroni, romanzo di una multinazionale, e uscirà verso la fine di gennaio. Comincia la sera della caduta del muro di Berlino e finisce con «Silvio dacci la luce» all’Eur nel ’93.