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Marco Tirelli, trasloco dell’atelier e immagini-ombra

Marco Tirelli, trasloco dell’atelier e immagini-ombraUna foto dell’atelier di Marco Tirelli nell’ex pastificio Cerere a Roma San Lorenzo

Conversazione in ambiente Marco Tirelli lascia il suo laboratorio storico a Roma San Lorenzo: che visitiamo in extremis insieme a lui per ricapitolare i termini di un’avventura della percezione dove tutto è transitorio e impalpabile

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 30 ottobre 2022

Attraversare soglie, incedere attraverso passaggi di scala e di dimensione, varcare spazi contigui ma posizionati su quote differenti. C’è una curiosa, e segreta, equivalenza tra i movimenti che anticipano il non immediato approdo fisico allo storico atelier di Marco Tirelli e l’altrettanto lento inoltrarsi nella stratificata porosità delle sue opere; le immagini dell’artista, a prima vista così bidimensionali e piatte, rivelano infatti una profondità di campo tale da inghiottire l’osservatore.

Il raggiungimento del laboratorio di Tirelli, installato alla sommità di una fabbrica di primo Novecento riconvertita – l’ex pastificio Cerere nel quartiere romano di San Lorenzo – si configura come una sorta di anabasi: non a caso, dal caotico livello strada di una zona della città ormai gentrificata e intrisa di una sempre maggiore quanto posticcia aura hipster si arriva, in uno stacco graduale per mezzo di ascensori simili a quelli degli stabili industriali newyorkesi, nel piano attico dove lavora l’artista.

Nell’organizzazione del laboratorio di Tirelli, così come nell’articolazione formale della sua opera, l’osmosi tra interno ed esterno, tra ciò che si pone al di qua e al di là del piano della rappresentazione, è molto sottolineata. A un «dentro» pensato per il confronto intimo con l’esperienza estetica si inframmette un «fuori», ovvero uno spazio aperto potenzialmente teso alla contaminazione. «Qui – dice Tirelli dopo avermi introdotto in una vasta terrazza dischiusa sulla bellezza di Roma – si è fatto molto teatro, ad esempio da Simone Carella e dalla compagnia La Gaia Scienza». Con lo slancio di chi è proiettato verso sfide inedite, mi fa poi partecipe della sua imminente trasloco in un nuovo studio e, come assorbito in una vertigine di ricordi, si sofferma a riflettere sulla vitalità intrinseca di un luogo che, tra anni settanta e ottanta – nell’irripetibile stagione del rilancio culturale della Città Eterna orchestrato prima dal sindaco Argan e poi dall’assessore Renato Nicolini – è stato un vero proprio centro di incubazione di sperimentazioni d’avanguardia. «Nel corso del tempo sono passati di qua tantissimi artisti anche stranieri, molti americani. Per un anno ha avuto lo studio Francesca Woodman. Poi Vik Muniz…».

L’ex pastificio Cerere ha funzionato da scenario privilegiato per l’affermazione del cosiddetto Gruppo di San Lorenzo (Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Marco Tirelli e Piero Pizzi Cannella), una compagine di artisti molto diversa e in sé disomogenea – in parte legata da pregressi rapporti d’amicizia e da un comune discepolato all’Accademia di Belle Arti con Toti Scialoja – che si trovò a lavorare sotto uno stesso tetto elaborando una originale declinazione di «ritorno alla pittura» nutrita ora di furori lirico-espressionisti, ora di istanze analitiche. Sul finire degli anni di piombo, l’area urbana di San Lorenzo, oltre a essere davvero ai margini della città, manteneva intatta la sua fisionomia di quartiere popolare segnato dai bombardamenti della guerra. «Questo era uno spazio praticamente abbandonato; i piani non avevano le mura, all’interno si poteva circolare liberamente; ognuno di noi ha poi affittato una parte del fabbricato ed è iniziata così un’avventura». «Pur essendo tutti noi molto sodali e amici – tiene a specificare – non abbiamo mai avuto l’intenzione di fare gruppo. Questa idea veniva dall’esterno; ci siamo sempre ritrovati con persone intorno che ci vedevano come un’entità coesa».

Tirelli era sopraggiunto nell’affollato e sovraesposto avamposto di San Lorenzo – si pensi che durante l’estate 1984 gli studi degli artisti vennero straordinariamente aperti al pubblico in occasione della mostra meta-teatrale Ateliers curata da Bonito Oliva – dopo un’esperienza per certi versi opposta. «Io sono nato all’Istituto Svizzero di Roma e lì ho avuto il mio primo studio tra roseti profumati, aiuole fiorite, sentieri di ghiaia. Ero immerso in un’oasi di tempo sospeso mentre fuori c’era la dolce vita».

Un senso di quiete filtra anche nelle stanze dell’edificio di via degli Ausoni dove Tirelli ha prodotto le sue opere. Gli ambienti, semplici ma non austeri, essenziali ma non asettici, sembrano essere stati progettati per sublimare al massimo grado la luce. Appena sopra un tecnigrafo utilizzato come base per depositare schizzi e fotografie compaiono, fissati in un equilibrio un po’ instabile, dei fogli bianchi percorsi da linee rette nere. «Questi – segnala l’artista – sono dettagli di un quadro di Mondrian che, fatto a pezzi e ricomposto in un altro ordine, è diventato un’altra cosa». Da sempre dotato di uno sguardo espanso e prensile, Tirelli indugia a meditare sulla relatività dell’atto stesso del guardare e, parallelamente, ragiona sulla consistenza metafisica delle immagini che l’occhio intercetta. «L’identità delle cose è solo la proiezione di un modello che si sceglie di voler vedere». «Le apparenze – continua – sono solo l’aspetto esteriore di una realtà più complessa. Noi possiamo accorgerci soltanto dei frammenti e delle delimitazioni che abbiamo intorno. Per avvicinarti all’infinito puoi solo naufragare».

Osservando l’attuale produzione di Tirelli – tra il 2021 e il 2022 reduce da impegnative esposizioni a Londra (Cardi Gallery) e Anversa (Axel Vervoordt Gallery) – emerge un temperamento romantico che si cristallizza in immagini impalpabili e aurorali. Quasi a voler condensare in un’unica apparizione l’essenza archetipale dei dati fenomenici, egli evoca su tele e fogli di carta figure geometriche, accenni di paesaggi e di architetture, sistemi di ingranaggi – forse allusivi ai meccanismi che regolano l’immaginazione e la memoria –, e poi, ancora, bagliori improvvisi, semplici gradazioni tonali, indefinite vibrazioni ectoplasmatiche. Secondo una ormai celebre metafora proposta da Georges Didi-Huberman e certamente nota all’artista, la fulminea transitorietà delle immagini sarebbe da equiparare all’evanescenza delle farfalle. «Le immagini – afferma Tirelli – le associo alle ombre. L’ombra è quel qualcosa che vediamo ma che non c’è, è un mancare della luce. Noi viviamo in una realtà che è fatta di mancamenti e, in fondo, di fantasmi».

Con una sensibilità per certi versi scientifica ma al contempo venata di sottili umori onirici riecheggianti ora la grafica di Redon, ora il cinema di Lynch, l’artista plasma la propria iconosfera organizzandola e visualizzandola mediante allestimenti di respiro ambientale (si pensi all’installazione di reminiscenza warburghiana predisposta per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2013). La propensione ad archiviare il mondo tramite sempre nuove, e spesso alogiche, corrispondenze visive caratterizza il lavoro recente di Tirelli; già nelle prove degli esordi era comunque rintracciabile, seppur contraffatta da una vaga sovrastruttura primitivista, la pulsione ad accumulare e a connettere sistemi di segni all’interno di un ideale atlante dell’io. «Ho archiviato milioni di immagini, di ogni tipologia. La mia archiviazione però non è mai stata per così dire “tassonomica”. Ho sempre collezionato immagini che potessero sbocciare in altre immagini». Ed è qui che l’opera di Tirelli, così sostanziata da un calcolato e razionale rigore formale, acquista un’imprevedibile carica emotiva. «Mi associano spesso al Minimalismo ma io sono nella direzione opposta. Nei miei lavori vorrei mettere tutto, anche le emozioni. Tutto dovrebbe entrare nell’opera d’arte».
L’affascinante collisione di modalità espressive antitetiche può spiegarsi se si tiene conto dei «maestri» elettivi dall’artista. «Prima ancora di conoscere Scialoja e quindi di seguire i suoi corsi con il suo rigore estremo, ho incontrato Alighiero Boetti. Lui era un personaggio incredibile, anche umanamente. Forse nella mia accumulazione, intesa nel senso dell’integrazione, della costruzione di patterns, c’era l’influenza di Alighiero. Penso a lavori come i suoi tutto. L’idea di far convergere l’universo intero in un unico spazio l’ho sempre avuta molto forte».

La curiosità verso la prospettiva extrapittorica della ricerca estetica era all’ordine del giorno negli anni della formazione di Tirelli. Rivelatoria l’impressione ricevuta da Contemporanea (1973-’74), epocale rassegna d’avanguardia – svoltasi nel garage di Villa Borghese, a pochi passi da dove risiedeva l’artista – che vedeva radunati insieme eroi del Concettuale quali Beuys, Nauman, Weiner. «Ricordo – asserisce cercando di comunicare l’effetto di una folgorazione tanto intellettuale quanto visiva – che ho passato ogni giorno in cui era aperta la mostra là sotto. Era qualcosa di eccezionale, forse anche per la suggestione del luogo, perché si aveva l’impressione di stare dentro le viscere della terra… gli allestimenti si materializzavano nel buio di spazi estesi a perdita d’occhio».

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