Marco Tiberi aveva appena cinquantuno anni. Era sceneggiatore televisivo, documentarista e autore di romanzi. Era un collega e un grande amico, di più, quasi un fratello più piccolo. Con il quale discutere e ridere su tutto, dall’ultimo film alla situazione politica, dai Tre Moschettieri alla filosofia tedesca, dal calcio (la Roma) a Shakespeare. In questo incarnava davvero lo spirito degli sceneggiatori e dei registi del periodo d’oro della commedia che, dotati di una sconfinata cultura e calati nella società contemporanea, per scelta avevano deciso di tenersi un passo indietro rispetto alle storie che raccontavano, seguendo la lezione di Flaubert: un autore deve essere come il Dio della Creazione, tutto nelle proprie opere. Marco infatti non ha mai ambito ad apparire, a presenziare, preferiva starsene, come si dice, nel cono di luce della lampada sulla scrivania e, appunto, scrivere, mantenendo un riserbo ironico, concentrato ed esemplare. Era stato allievo di mio padre, Furio Scarpelli, secondo cui nell’arte come nella vita andava dunque abolito il termine «io», sostituito dal «noi»: bisognava parlare di un cinema «nostro» con storie corali di disgraziati alla ricerca di una legittima felicità.

Insieme, abbiamo scritto parecchie storie per il cinema, di cui tre realizzate: I mostri oggi, regia di Enrico Oldoini, Christine Cristina, regia di Stefania Sandrelli, e Uomo di fumo, regia di Giovanni Soldati. Altre storie sono rimaste nel cassetto, ma una ha avuto un diverso destino, Il figlio di Brancaleone: nato come soggetto per un terzo capitolo della saga di Age-Scarpelli-Monicelli, lo abbiamo trasformato in un romanzo, grazie a un editore che è un altro amico fraterno di Marco, Pippo Civati. Insieme a Emanuela Fanelli Marco ha anche pubblicato un libro di conversazioni sulla comicità e il suo pubblico: Potevo intitolarlo ’Voce di donna’ ma non sto ancora a questi livelli. Insieme a Civati Marco ha firmato Fine, un romanzo distopico-ecologistico. E poi, in tutti questi anni Marco ha compiuto la spericolata e sapiente impresa di tradurre la migliore tradizione della commedia nella fiction televisiva. Ci ha scritto un romanzo, L’ultima morte di Peppe Bortone, sulle vicende esilaranti e struggenti di un vecchio figurante di soap opera e, prima, dei western all’italiana. Il sequestro. Controstoria del Partito democratico è un pamphlet, come si chiamavano una volta, in cui ha narrato con toni ironici e finezza certa deriva della sinistra italiana.

Tanti altri progetti, coltivava Marco che in nelle nuove avventure portava con sé la saggezza culturale e civile di una volta. Aveva rielaborato la lezione dei maestri, secondo cui era importante riflettere e proporre un futuro sociale che prescindesse dai personalismi. Del resto, Marco nel suo lavoro sapeva bene che nelle storie «sono i pensieri dei personaggi che contano, e i pensieri che evocano nel pubblico, non quelli di chi scrive o va a girare, poiché la musica non è il musicista e la letteratura non è lo scrittore». E sapeva bene un’altra cosa, che il riso è solo l’altra faccia del pianto.