Marco Ferreri, quei film come corpo del reato
Il cinema ritrovato Il festival bolognese presenta una retrospettiva dei film meno noti del regista nato a Milano, insieme ai suoi classici
Il cinema ritrovato Il festival bolognese presenta una retrospettiva dei film meno noti del regista nato a Milano, insieme ai suoi classici
A parte Pasolini, a parte il caso eccezionale di Ultimo tango a Parigi (il film di Bernardo Bertolucci) condannato alla distruzione, Marco Ferreri è stato senz’altro il regista italiano più bersagliato dalla censura, in quanto esponente d’un cinema grottesco, irriverente, assai poco rispettoso delle istituzioni, sociali, politiche, familiari e religiose (Vaticano compreso). Sulla scia di Rabelais e dell’amicizia con lo sceneggiatore spagnolo Rafael Azcona, sia come regista che come organizzatore culturale, Ferreri ha sempre scandalizzato i censori, perché ha sempre attaccato le ipocrisie del potere. Ogni suo film aveva a che fare col corpo, col cibo, con il vino, con il sesso, con la carne e con la morte. Ogni suo film, di fronte al generale conformismo, si poneva insomma come corpo di reato, e ora ad agosto, nell’ambito della manifestazione Cinema Ritrovato, la Cineteca di Bologna ne offre un significativo florilegio. L’omaggio, si può dire, non riguarda solo Ferreri, ma anche il suo attore-feticcio, Ugo Tognazzi, il più vicino al grottesco tra tutti i comici della cosiddetta «commedia all’italiana».
Ferreri non è stato solo sceneggiatore e regista, ma anche produttore e suscitatore di energie cinematografiche da parte di intellettuali e letterati. Grazie a lui, Alberto Moravia girò il suo unico film, Colpa del sole (1951), un cortometraggio di circa sei minuti, e Luigi Malerba poté realizzare, nel 1955, Donne e soldati, assieme ad Antonio Marchi, regista parmense amico di Attilio Bertolucci, che figura tra gli sceneggiatori: film che «non piacerà ai generali», è stato detto giustamente di Donne e soldati, ambientato in un Medioevo dove la retorica militarista cede il passo alle ragioni della vita e dell’amore.
I borghesi
In Colpa del sole si ritrova il tema moraviano dell’indifferenza borghese nei confronti di tutto ciò che non tocca direttamente i propri interessi. Una coppia di amanti, una donna e un giovanotto, siede su un divano davanti a un ampia finestra che dà su un giardino. Mangiano qualcosa. La donna sembra annoiata dalle avances del giovane. A un certo punto, nel giardino, fuori della finestra, avviene un delitto: un amante geloso (probabilmente) spara alcuni colpi di rivoltella vero la sua ragazza. Il giovane della coppia vorrebbe correre in soccorso, ma a questo punto è la donna a trattenerlo sul divano. Accorre altra gente. Gli amanti non si sono mossi: colpa del sole, si stava troppo bene così. In controcampo, dalla parte del giardino, si chiude una tenda, come si chiude un sipario, sul teatrino dell’indifferenza.
Il periodo spagnolo
In Spagna, Ferreri gira, co-sceneggiatore Azcona, due film fondativi della sua poetica: El pisito (1959) e El cochecito (1961), inframmezzati da Los chicos (1960), sceneggiato assieme a L. Marin. El pisito racconta la storia di un giovanotto che non riesce a sposare la fidanzata perché non può permettersi un alloggio, e decide di sposare la sua padrona di casa ottantenne in attesa di ereditare l’appartamentino. Nel Cochecito, il pensionato don Anselmo avvelena addirittura tutti i familiari, dato che gli negano i soldi per comprare una moto carrozzella da invalido, di cui in realtà non ha bisogno. La moto carrozzella gli serve solo a non sentirsi emarginato dai suoi amici, tutti invalidi e tutti motorizzati.
Se questo è amore
Con Azcona co-sceneggiatore, in Italia, poi Ferreri gira un episodio del film collettivo Le italiane e l’amore (1961) organizzato tra gli altri da Zavattini, basato su una raccolta di lettere inviate ai giornali da un campione di donne italiane. L’episodio si intitola Gli adulteri, e mette in scena una famiglia apparentemente felice (moglie, marito, tre figli, una serva tuttofare, un cane), in cui i coniugi reciprocamente si tradiscono: senza molta soddisfazione però, almeno da parte della donna, che alla fine confessa alla macchina da presa tutta la sua frustrazione. In realtà, porta avanti una finzione di pace familiare unicamente per amore dei figli: ma questo, alla lunga, non basta.
Donna scimmia
Seguendo il filo della programmazione annunciata da Cinema Ritrovato, viene poi riproposto La donna scimmia (1964). Annie Girardot è Maria, una ragazza con il viso ricoperto da una fitta peluria, il cui personaggio si ispira vagamente a «donne barbute» realmente esistite. Un piccolo truffatore, Antonio Focaccia (Ugo Tognazzi) la trova per caso in un orfanotrofio a Napoli e la costringe a partecipare a grotteschi spettacoli da fiera, arrivando poi al punto di sposarla, pur di non perdere l’affare.
Maria deve apprendere (goffamente) a imitare gesti e movimenti delle scimmie, ad arrampicarsi sugli alberi e fingersi selvaggia. È dunque doppiamente camuffata, ma il suo camuffamento è tragico: è una donna col volto d’uomo, che a sua volta imita una scimmia. Può venire in mente l’incontro di Norma Desmond con il giovane sceneggiatore, incontro propiziato da una scimmia (morta) in Viale del tramonto di B. Wilder, ma la cosa è molto diversa. Il viso di Maria entra in flagrante contraddizione col suo corpo. Non solo: il suo volto stesso, nell’impressionante sequenza del matrimonio-spettacolo, entra in contraddizione con il velo da sposa che lo incornicia. La sposa è una Novia, è una donna, è una scimmia, è un mostro, è un essere umano sfruttato e disgraziato.
Affiora la pietà, perfino in Antonio, quando lei muore assieme al figlio appena partorito – ma poi i corpi di madre e figlio, mummificati, serviranno anch’essi come materiale della solita, grottesca esposizione, indipendentemente dalle versioni finali alternative, meno pessimistiche, che Ferreri girò per evitare altri guai con la censura, e che verranno presentate a Bologna, assieme ai quattro episodi di Marcia nuziale (1966).
Episodi
Nel primo si parla di nozze combinate tra cani di razza, subordinate alla regolarità di numerosi documenti burocratici; nel quarto, si adombra la sostituzione delle donne con bambole gonfiabili di plastica. D’altra parte, solo una di queste bambole è capace di piangere, cioè di provare un simulacro di emozione.
Il professore (1964) era un episodio di Controsesso e rappresenta, forse, la più grande interpretazione di Tognazzi, uomo terrorizzato dalle donne e anche morbosamente attratto da loro, che insegna in una classe magistrale femminile. L’armadio-latrina che fa istallare nella classe è l’armadio delle sue fantasie, cui non riesce a resistere, fino ai limiti della disperazione.
Break up invece, girato un anno dopo La donna scimmia, fu tagliato pesantemente dal produttore Carlo Ponti, per inserirlo in un film a episodi (Oggi, domani, dopodomani), col titolo L’uomo dei cinque palloni. La versione integrale uscì in Francia solo dopo quattro anni.
Break up in inglese significa rottura, e vede Mario (Marcello Mastroianni), industriale proprietario di una fabbrica di caramelle, alla ricerca di un’anima (l’aria contenuta nei palloncini) che gli scoppia inesorabilmente tra le mani quando tenta di misurarla. Per me risuona in break, un altro termine inglese, breath, che significa respiro. Anche i capitalisti hanno un’anima, insomma, solo che hanno il torto di volerne misurare il peso, secondo un’istanza ossessiva di quantificazione. Ne portano il marchio tanto nei rapporti erotici (vedi Mario e la fidanzata Giovanna – Catherine Spaak), quanto nelle feste (vedi l’inserto a colori nel night). L’uomo tenta di galleggiare in alto appeso a grappoli di palloni, ma riesce solo a rovinare l’evento poetico.
L’anima, nel misurarla, viene in realtà soffiata via, si perde. In questo caso, Mario si suicida, piombando da una finestra sulla macchina di Ugo Tognazzi, e distruggendola. Viene lasciato campo libero non a Giovanna, neppure dunque a una donna, ma al cane del suicida, che alla fine banchetta con le leccornie gastronomiche acquistate in precedenza dal padrone.
Da morire
Ancora processi, ancora accanimento della censura, a proposito della Grande abbuffata (1973). Quattro amici, stanchi della vita, decidono di ritirarsi in campagna, nella villa d’uno di essi, già appartenuta al poeta Boileau, e di suicidarsi mangiando, tramite l’ingestione continua e spropositata di cibo. Sono Ugo (Tognazzi), cuoco sopraffino, Michel (Piccoli), produttore televisivo, Marcello (Mastoianni), pilota d’aerei, e Philippe (Noiret), magistrato. A noi, oggi, viene abbastanza naturale collegare questo film al «salò-Sade» di Pasolini, che è di due anni dopo, ma qui la spinta che muove i quattro amici è essenzialmente autodistruttiva: mangiare per morire, fare sesso con prostitute e con una compiacente maestra di scuola (Andrea Ferreol).
Il sesso, anzi, offre l’occasione per prelibati capricci culinari – dolci a forma di natiche femminili, manicaretti a forma di tette. Scoppia il gabinetto, il puzzo di merda invade tutto. Uno ad uno, i quattro amici muoiono congestionati, e a restare viva è solo Andrea, la maestra; ma anche qui il trionfo finale appartiene alla razza canina: i cani scorazzano liberi nel giardino addentando i pezzi di carne che vi sono sparsi. Il «fa ciò che vuoi» di Rabelais sfocia dunque nell’autodistruzione.
Il programma di Bologna tocca anche l’altro tema fondamentale ferreriano, ossia quello della rarefazione narrativa, che culmina in Diario di un vizio (1993), con Jerry Calà. Da parte nostra, ribadiamo il carattere grottesco del cinema di Ferreri, precisando però che si tratta di un grottesco mai gratuito, quale i comici a volte appunto utilizzano, ma marcatamente «politico»: un grottesco sempre dalla parte dei più deboli, contro il potere e la sua arroganza.
Ferreri ribadiva con veemenza la sua convinzione che i comici (Tognazzi, Benigni, Jerry Calà ecc.) sono spesso i migliori interpreti di film drammatici. Affermazione assolutamente condivisibile, anche pensando a Pasolini (vedi Totò, Franchi e Ingrassia ecc.) o a Fellini (Peppino de Filippo, Paolo Villaggio, lo stesso Benigni – a parte Matroianni), ma basata su quale presupposto? Forse sentiva nella risata, almeno nella risata grottesca alla Rabelais, l’eco lontana, ma inquietante, del nulla che comunque incombe.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento