Marcello Dudovich, fascino simplicissimus
Sole o accompagnate, con o senza cappello, sorridenti o imbronciate, spregiudicate o austere, sommerse tra i bagagli delle vacanze o mentre camminano sulla spiaggia controvento, si guardino civettuole allo specchio o afferrino con grazia il bouquet, cosa rendono queste donne così riconoscibili? Sospese tra la leggerezza impalpabile del desiderio e la fermezza della decisione irrevocabile, sono tutte belle signore eleganti a cui non si può dire di no. Sanno quello che vogliono, perfette testimonial del consumo obbligatorio ammalate di shoppingmania, guariscono solo acquistando, sono le donne di Marcello Dudovich, uno dei grandi protagonisti del manifesto italiano. Straordinaria figura di cartellonista e illustratore, la sua avventura artistica si snoda lungo oltre mezzo secolo, prende il via dagli atelier della sua città – nasce a Trieste il 21 marzo 1878 e muore a Milano il 31 marzo 1962, giusti sessant’anni fa – fino a fare del ragazzo estroverso e vivace il cittadino del mondo che con le sue irresistibili figure femminili sigla un’epoca, un modo di vivere, uno stile, sottraendoli per sempre all’assalto del tempo.
Sognatore irriducibile e irrequieto, il figlio dell’ex-garibaldino fa le sue prime esperienze di vita come mozzo su una nave mercantile, nello stesso momento in cui l’immaginario salgariano comincia a muoversi tra giungle e oceani. Ma lui non è mai stato un grande lettore, né lo diventa a scuola dove, sempre intento a scarabocchiare disegni, rimedia una bocciatura dietro l’altra. Solo negli studi dei pittori trova finalmente l’ambiente giusto per intravedere nel breve apprendistato gli incerti segnali della vocazione. Se a Trieste la cultura mitteleuropea è nell’aria, il breve soggiorno a Monaco lo mette in contatto con lo Jugendstil che rivive a modo suo la rivoluzione modernista dell’Art Nouveau, da cui gli artisti tedeschi finiscono con l’allontanarsi sempre di più in nome di un tratto più scarno e di un’impostazione più essenziale. Non ha ancora vent’anni quando nel 1897 entra nelle Officine Grafiche Ricordi di Milano come cromista, il tecnico incaricato di incidere su pietra i bozzetti degli altri, per passare presto a realizzare i propri. Solo un paio d’anni dopo è a Bologna nello stabilimento di Edmondo Chappuis, dove s’impegna nelle prime committenze importanti. Nel periodo bolognese sposa Elisa Bucchi che, a giudicare dalla foto che la ritrae accanto a lui, è il prototipo delle figure femminili che attraverseranno l’opera dell’artista. La collaborazione a Italia ride gli apre le porte della grafica editoriale, un aspetto tutt’altro che marginale della sua attività. Nel 1906 ritorna a Milano e riallaccia i rapporti con Ricordi che si sta preparando all’Esposizione Internazionale, in coincidenza con il Traforo del Sempione.
Cartellonismo
Se la casa milanese si è mossa all’inizio sulle note dell’opera lirica, della romanza e della canzone, stampando soprattutto spartiti musicali con copertine molto gradite al pubblico degli appassionati, nel giro di pochi anni si è aperta a tutto campo all’universo in progress della stampa litografica fino a diventare l’osservatorio privilegiato delle novità, il principale punto di riferimento del manifesto in piena espansione. Nello scorcio del secolo che comincia è il laboratorio vivacissimo e contraddittorio in cui si dispiega lo scontro fra arte e artigiano, avanguardia e cultura di massa, un nodo centrale nell’epoca della riproducibilità tecnica. Sulla scia dei grandi esempi stranieri, il cartellonismo italiano appena affrancato dalla tradizione ottocentesca si lascia alle spalle le svenevoli ascendenze preraffaellite e le frastornanti esuberanze floreali per trovare la propria strada nella vasta gamma di possibilità incarnate da autori di spicco come Adolfo Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz, Franz Laskoff, Giovanni M. Mataloni, che sanno filtrare le esperienze europee del modernismo in formule nuove e originali. L’identikit del cartellonista pubblicitario suggerito da Luciano Ramo in L’arte della réclame è esplicito: «Non è più il migliaio di persone a lui dinanzi, ma la città tutta, ma il pubblico tutto, ma la folla, l’immensa folla che vive, si muove, che si agita, che corre, che si moltiplica intorno. Egli deve parlar a tutti, a tutti costoro; egli deve fermarli, percuoterli, farli sostare: bisogna che egli suggestioni, scuota, faccia vibrare le sensazioni di tutta una massa enorme, di ogni cervello e di ogni età; bisogna che egli eserciti una pressione sulle facoltà intellettive e sentimentali di tutto il mondo».
Grande assimilatore, si impadronisce con disinvoltura degli apporti più diversi, ma presto punta a elaborare un proprio lessico visivo sottraendosi alle tentazioni del decorativismo e alle lusinghe dell’effetto-quadro che esaltano l’abilità dell’artista ma compromettono l’immediatezza del messaggio. Nel giro di pochi anni raggiunge l’estrema semplicità di linguaggio che predilige campiture piatte, rigorosa bidimensionalità, linea decisa, colori luminosi, insomma lo stile Dudovich com’è riconosciuto e apprezzato in quella che resta la sua stagione irripetibile. Si va dai primi manifesti del 1906 per i Magazzini Mele di Napoli, che rappresentano con freschezza e originalità i personaggi e le situazioni del privilegio altoborghese per conto del consumatore medio, al celebre Borsalino del 1911 in cui la figura cede il posto alla mitica bombetta accanto a guanti e bastone sulla poltroncina Luigi XV, simbolo del mondo elegante a cui rimanda il prodotto ma insieme metafora dell’assenza che implica l’invito a entrare a far parte del cartellone, al Non Puoi Fare Senza del messaggio pubblicitario. Il centro del mondo d’inizio secolo è la donna vista quando la moda la trasforma, emancipandola dalle rigide preclusioni del passato, mentre il lusso si fa borghese senza perdere la sua aura di irraggiungibilità. Sotto lo sguardo sornione degli stilisti superstar, la nuova figura femminile non si affida solo al vestito ma agli accessori della seduzione, i guanti, i fiocchi, i colletti, le calze. Il magico Dudo – che collabora a Ars et Labor per illustrare gli articoli della moglie che vi scrive di moda – frequenta i salotti milanesi, i ritrovi, le sfilate, il Caffè Biffi, il Salvini, l’Orologio, dove si danno appuntamento le signore con veletta, le donne misteriose dei suoi manifesti.
Quando la sua notorietà è al massimo, gli viene chiesto di disegnare per Simplicissimus, la famosa rivista satirica di Monaco, come inviato speciale che per quattro anni si sposta tra le varie capitali europee del bon ton, per creare i suoi reportage dedicati alla vita mondana dell’alta società, animando tra l’ironico e il divertito la suggestiva galleria d’immagini che unisce la sicurezza del tratto alla folgorazione del colpo d’occhio. Lo scoppio della prima guerra mondiale chiude bruscamente l’eccitante esperienza del reporter che rievoca con gli occhi della nostalgia l’ultimo sogno della Belle Époque: «Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti sui campi di battaglia, ma sui campi di corse e di golf a Parigi, Berlino, Ostenda, da Londra a Montecarlo, passando per Deauville, per ritrarvi le belle donne, la mondanità elegante e le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all’altra senza passaporto e senza carta d’identità: una cosa meravigliosa. Esisteva una specie di internazionale dell’intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un’epoca in cui non si poteva non avere fiducia nell’avvenire, un tempo dove si era liberi di pensare, scrivere, agire e creare». Negli anni angosciosi del conflitto, si sposta a Torino, dove moltiplica la collaborazione alle riviste, alternando copertine a figurini di moda, illustrazioni di racconti a vignette satiriche. Si sperimenta anche nei manifesti cinematografici e nei ritratti delle attrici di cinema e di teatro, nei bozzetti per le bambole Lenci, care alla memoria delle ragazze d’antan.
Nel 1922 nasce la Star, la sua società editrice che si fonde di lì a poco con l’Igap, l’Impresa Generale Affissi e Pubblicità, nel momento in cui decollano le prime agenzie italiane. Nell’album del cartellonista si ritrovano le sigle delle più grandi industrie che si rivolgono alla maestria della sua mano per celebrare i prodotti dell’epoca: Amaro Montenegro, Bitter Campari, Strega, Florio, Menta Pezziol, Vermout Martini, Assicurazioni Generali, Crociere Estive Corte Verde, Agfa, Giviemme, Pirelli, Dunlop, Michelin, Fiat, Bugatti, Alfa Romeo. Prodotti ma anche modelli di comportamento, istantanee di vita, flash di un passato che in parte c’è ancora. La sua firma coincide per più di trent’anni con il marchio della Rinascente, il grande magazzino che scandisce l’avvento della società di massa. Nell’ottantina di manifesti dedicati al paradiso delle signore compare spesso un’unica figura femminile, la protagonista di una sorta di fantasmagorica cosmogonia in bilico tra simbolo e merce. Nelle Novità di Stagione nasce la primavera e incalza l’estate. Il volto di lei è quasi interamente nascosto dal cappello. Sullo sfondo della vela, sorride compiaciuta in costume da bagno, radiosa fa lo sci d’acqua, sfoglia la rivista di moda. Si abbronza al centro di un grande fiore, con la mano si ripara gli occhi dal sole, anche se è in Vacanza non ha nessuna intenzione di perdersi la Vendita Speciale d’Estate. Ma nel Mare Monti Campagna è proprio una venere con i capelli al vento che esce dalla conchiglia tra vestiti e costumi. La donna-rinascente è la bionda fata benefica, circondata dallo sfarfallio dei figurini di moda che distribuisce con entusiasmo. Sta aprendo l’ombrello, ma con l’altra mano si difende dal vento, il vestito è una macchia di colore e di vitalità sullo sfondo dei nuvoloni. Nell’Autunno Inverno, è infreddolita ma il cappotto la sta raggiungendo. Si abbraccia al pupazzo di neve in cilindro e stola di pelliccia al collo. Seduta in groppa all’orso bianco, ci guarda lontana con il mantello d’ermellino dai neri bordi di volpe, mentre cadono i primi fiocchi di neve. Si stagliano sullo sfondo vuoto, tra casalinghitudine e mondanità, ci vengono incontro sorridendo, sono tante, tutte uguali e diverse, chissà se sanno di incarnare il come eravamo del costume e della pubblicità, un pezzo della nostra vita e della nostra storia.
In Libia
Qualcosa cambia negli anni del regime, il linguaggio risente dell’estetica novecentista, tra chiaroscuri e forme volumetriche, mentre le scritte a caratteri cubitali dominano il cartellone dove non c’è più posto per le signore in tiro di ieri. Si appassiona alla decorazione murale affrescando pareti di edifici pubblici e di ville private, ma si dedica sempre di più alla pittura a olio partecipando con successo alle Biennali d’Arte di Venezia. Nel secondo dopoguerra il cartellonista non si riconosce più nel mondo della pubblicità. Quando è già cominciata per lui l’epoca delle mostre retrospettive e dei riconoscimenti ufficiali, nel 1951 ritorna in Libia, dove era stato più di una volta nel corso degli anni Trenta. Si chiama From Tripoli to Games l’album in inglese pubblicato nel 1930 dall’Ufficio Turistico Alberghiero che ripercorre con le tavole del disegnatore il viaggio tra le dune e le oasi, i palmizi, le donne velate, i paesaggi incantati. Se in varie occasioni ha decorato chiese e palazzi della colonia, nelle sue affascinanti litografie la mistica del deserto con i cavalieri vestiti di bianco si alterna ai viaggiatori europei che a bordo delle automobili solcano le piste infuocate. Quando nel 1936 vi torna ancora una volta, appunta a matita e china le immagini della sua esperienza africana con i minareti, i nomadi, le donne, gli incantatori di serpenti, i suonatori di flauto, i mercati, le carovane. Il sogno orientale del grande reporter dell’immagine ha decisamente abbandonato il salotto mondano per una sorprendente stagione all’inferno tutta da scoprire.
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