Lavoro

Marcegaglia licenzia e non concede tavoli

Marcegaglia licenzia e non concede tavoliEmma Marcegaglia

Il caso Il gruppo in crisi chiuso al dialogo. Esuberi e cig in tutti gli impianti, decine di addetti non saranno ricollocati. Fiom: «Il ministero tace»

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 16 maggio 2013

I licenziamenti al gruppo Marcegaglia non sono ancora tecnicamente arrivati, ma sono previsti molto a breve visto il susseguirsi inarrestabile di tagli e chiusure di reparti delle ultime settimane. Sembrano inevitabili, visto che in diversi casi l’azienda ha già annunciato ai sindacati che sarà impossibile ricollocare tutti i lavoratori, che dunque – dove non potranno essere prepensionati – verranno necessariamente avviati verso la mobilità e la disoccupazione.

Certo, c’è la crisi. Ma è anche vero che la ex presidente della Confindustria, donna simbolo dell’imprenditoria italiana e pilastro del gruppo di famiglia, insieme al padre e al fratello, non sta offrendo in questi giorni un grande esempio di «responsabilità sociale». L’industriale si è infatti intestardita su un punto: non va concesso al sindacato un tavolo nazionale, e vanno al massimo contrattati, a spizzichi e bocconi, soluzioni azienda per azienda, sito per sito. Tanto che i suoi desiderata sarebbero arrivati dritti dritti sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico, guidato dal ministro Flavio Zanonato e dal sottosegretario Claudio De Vincenti, che pare abbiano deciso per il momento di soprassedere, e di non convocare le parti a Roma. Eppure, ce ne sarebbe tutta l’urgenza.
Il gruppo Marcegaglia conta quasi 4600 dipendenti, sparsi in stabilimenti di varie regioni del Nord Italia, e seppure non si possa stilare una precisa «mappa del rischio», è pure vero che la cassa integrazione ha ormai toccato quasi tutte le produzioni (si tratta principalmente di tubi e materiali in acciaio), mentre in realtà come Graffignana (Lodi), Pozzolo Formigaro (Alessandria), San Lorenzo in Campo (Pesaro) si parla di chiusure, esuberi e di decine di lavoratori che non saranno ricollocati, e che si avviano verso il licenziamento.

Il caso di Pozzolo è simbolico: l’allarme è partito quando l’azienda ha annunciato la chiusura di una divisione, con il conseguente esubero di 75 addetti. Al tavolo con il sindacato, il management si è detto disponibile a ricollocare soltanto 21 persone: per le altre 54, quindi, si apre una voragine di incertezza e un futuro nero. La questione è stata oggetto di una interrogazione alla Regione Piemonte, del Prc, a cui ha risposto l’assessore al Lavoro, Claudia Porchietto (della Lega). L’assessore ha concluso la sua risposta invocando un tavolo presso il ministero, appello rilanciato dalla Fiom: ma da Roma, per ora, tutto tace.

E non è che i guai siano solo a Pozzolo. A Pesaro chiuderà la Vbv. È stata annunciata la vendita della Oto Mills, probabilmente a una società francese, ma non si sa se verrà garantita tutta l’occupazione; a Graffignana sono stati dichiarati 70 esuberi. Esuberi si temono anche a Sesto San Giovanni e Fontanafredda (Pordenone), anche se ancora non sono stati annunciati. E poi la cassa integrazione, la riduzione degli orari e dei salari, che riguarda Dusino (Asti), Gazoldo degli Ippoliti e Contino (Mantova), Casalmaggiore (Cremona).

«Abbiamo scioperato fino a marzo – spiega Mirco Rota, segretario Fiom Lombardia – Ma adesso è arrivato il momento che intervenga il governo: va assolutamente convocato un tavolo nazionale al ministero dello Sviluppo, e ci sorprende che a chiederlo sia solo la Fiom. È paradossale come in alcuni stabilimenti si sia passati dagli straordinari e assunzioni ai tagli e agli esuberi. Si era introdotto il salario di ingresso, due anni fa, con il taglio al premio aziendale per gli apprendisti, ma come si vede non ha funzionato: non a caso la Fiom non l’aveva firmato».

«Marcegaglia ci deve informare – conclude Rota – Dalla vendita di Oto Mills in giù, stanno decidendo tutto nel più assoluto mistero e concedendo incontri nazionali in cui non ci dicono nulla, accettando di trattare solo sul territorio. Ma noi vogliamo vedere la prospettiva dell’intero gruppo, sapere su cosa si investe. A Casalmaggiore, che era il loro vanto, la produzione è scesa del 30% e i lavoratori hanno dovuto rimetterci ore e permessi, secondo un piano di fatto imposto alle Rsu. Non è così che si fa programmazione industriale, ora vogliamo essere ascoltati».

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