Alias Domenica

Mapplethorpe, scultura antica in camera oscura

Mapplethorpe, scultura antica in camera oscuraRobert Mapplethorpe, "Thomas and Dovanna", 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Al Madre di Napoli, "Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra", a cura di Laura Valente e Andrea Viliani 30 anni fa, il 9 marzo 1989, moriva il fotografo newyorkese. Tra le varie iniziative, questa, in particolare, punta sul suo rapporto con la classicità, segnato anche dal viaggio partenopeo del 1984. Scolpiti da una luminosità che Mapplethorpe sapeva dosare con maestria rinascimentale, i corpi quasi consumano la carta al platino

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 20 gennaio 2019

La posa è nitidamente frontale ma il baricentro subisce una tiepida inclinazione sulla destra e la linea della spalla, fasciata dal nero della giacca, poggia sulla superficie chiara del muro. Incorniciato dalla inconfondibile acconciatura, riconosciamo il viso di Andy Warhol e un dubbio sembra sfuggire dal suo sguardo che, adesso, ci osserva immobile come un’icona sacra ma, nel 1983, nel momento esatto in cui la fotografia stava per essere scattata, ricambiava il punto di vista di Robert Mapplethorpe.
Coreografia per una mostra è il sottotitolo della retrospettiva che il Madre-Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli ha dedicato al fotografo che ridefinì l’estetica di quegli anni con le sue immagini controverse, andando oltre l’abusato limite tra erotismo e pornografia, giocando sulla intima similitudine tra luce e ombra, fino a venirne drammaticamente travolto. A cura di Laura Valente e Andrea Viliani, organizzata in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation e visitabile fino all’8 aprile 2019, la mostra coincide con il trentennale di The perfect moment, monografica che aprì all’Institute of Contemporary Arts di Philadelphia nell’inverno del 1988, parata macabra in onore di una figura leggendaria già in vita, a pochi mesi prima della prematura morte, avvenuta il 9 marzo 1989, a 43 anni, per Aids.
Si tratta della prima personale di ampio respiro presentata dall’insediamento, avvenuto a gennaio 2018, del nuovo Consiglio di Amministrazione della Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee. E la divergenza dal vecchio corso, rivolto ai nomi più urgenti dello strettissimo contemporaneo e a figure da riscoprire e approfondire, da Francis Alÿs e Walid Raad a Vettor Pisani e Fabio Mauri, si evince già da questa mostra, densa come c’era da aspettarsi nel caso di un nome così storicizzato, sovraesposto e di immediato richiamo. Ma un classico ha sempre qualcosa di inaspettato da dire e il 2019 sembra essere l’anno di Mapplethorpe, artista al quale il Guggenheim di New York – che ha in collezione ben 200 fotografie, donate sempre dalla plenipotenziaria Mapplethorpe Foundation – ha appena dedicato un doppio progetto espositivo che si prolungherà fino al 2020. Senza contare il biopic di Ondi Timoner, che ha già debuttato al Tribeca Film Festival e uscirà nelle sale a marzo.
E così, in questo panorama che rischia di risultare saturo, la mostra del Madre tenta di aprirsi una via di fuga, mettendo in evidenza due aspetti della poetica del fotografo che, in effetti, potrebbero essere l’uno la conseguenza dell’altro. Da una parte, la cifra performativa espressa dai soggetti ritratti, reinterpretata attraverso un cartellone di azioni firmate dai coreografi Olivier Dubois e Vadim Stein, liberamente ispirate a quel dinamismo prezioso, il cui segno è rintracciabile sulla pellicola. Dall’altra, la classicità centrale, diretta e scultorea delle pose di body builder, danzatrici, modelli e nature morte, in dialogo con opere d’arte provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dal Museo di Capodimonte, dall’Antinoo Farnese a un Crocifisso di Giambologna. Suggestioni dall’Antico che lo stesso Mapplethorpe ebbe modo di recepire nel corso di un suo viaggio nella città partenopea, in occasione di una sua mostra del 1984, nella galleria di Lucio Amelio. Scandito in tre sezioni, ritmate dalla prevalenza, rispettivamente, di figure, ritratti e autoritratti, il percorso espositivo tiene conto di questa esperienza, presentando le vedute dell’Antro della Sibilla, a Cuma, dei Faraglioni di Capri e del Porto di Napoli, oltre che materiali documentari provenienti dall’Archivio Amelio-Santamaria.
Ma a risaltare, scolpiti da una luminosità che Mapplethorpe sapeva dosare con maestria rinascimentale, sono inevitabilmente i corpi, che acquistano una prospettiva talmente concreta da consumare l’elegante superficie visiva della carta al platino. Plastici più che tridimensionali, come sbalzati da un denso fluido amniotico, emanazione di una tensione imminente, i reperti collezionati dalla camera del fotografo, vasi di fiori o fasci di muscoli, appaiono sovraccaricati di presenza e di enigmi, come ansimanti latori di messaggi indicibili, inviati da divinità che si preferisce immaginare isolate dallo spazio quotidiano ma si prova piacere ad ascoltare. Attraverso le sue opere, la seduzione dell’oscurità è riuscita a forzare l’immaginario collettivo, divenendo popolare. «Voglio vedere il male in tutti noi», diceva Mapplethorpe, moderno Policleto, assiduo frequentatore dei club BDSM del Meatpacking District di New York, ed è proprio grazie a questa iperdefinita perfezione formale che è impossibile relegare la sua fotografia nel ristretto alveo del genere o della pornografia.
Eppure, tolti i panni ribelli e geniali, soffocanti ma particolarmente adatti per emergere in quella temperie sociale e culturale, si svela lo sguardo sensibile dell’artista. Nei ritratti, paradossalmente i lavori meno amati dall’autore, realizzati più per esigenze commerciali che per fervore creativo, compare la poesia del particolare, nell’orlo della camicia ricaduta con un capriccioso arabesco, nella tensione superficiale dei muscoli mimici del volto, nell’equilibrio di quelle sottili geometrie modellate tra le espressioni e gli atteggiamenti. È solo un attimo ed è decisivo saperlo riconoscere.
Le mani, protese all’altezza del bacino, sfregano nervosamente l’una sull’altra. La bocca si socchiude cadenzando il flusso di un dubbio e la certezza di essere Andy Warhol, il genio della Pop Art, il fondatore della Factory, il dittatore delle mode, si dirada, come lo smog nelle prime ore autunnali di una mattinata newyorchese. E poi, continuando a immaginare di essere lì, in quel momento subito dopo lo scatto, uscire dalla sua camera oscura al 35 West 23rd Street, Manhattan, per seguire tutti gli altri volti di quella stagione mitica, Leo Castelli, Norman Mailer, John McKendy e Patti Smith. E in queste storie già grandi, ritagliare i minuti di un fugace e osceno scambio di battute intrattenuto con Mapplethorpe, oppure inquadrare il tempo di un profondo e travagliato rapporto sentimentale o, ancora, riconoscere la compresenza di entrambe le situazioni senza capire dove sia la differenza. Come poteva accadere se si aveva a che fare con un seduttore come lui, indecente, sublime, bellissimo, demoniaco.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento