Carola Spadoni è filmmaker e artista visiva. Nata nel 1969 a Roma, vive a Berlino. Si occupa di immagini in movimento, narrazioni, teoria e critica istituzionale. I suoi lavori sono stati presentati alla Berlinale, alla 50/a Biennale di Venezia, al Sesc Paulista a São Paulo, da Ocat a Shanghai, alla Galleria nazionale di Roma. Ha curato Reality and cinema: frammenti di un discorso amoroso per Filmmaker’s Choice all’Arsenal di Berlino.

Sempre nella capitale, tedesca è in corso la sua personale TPF&VA n.0 al Künstlerhaus Bethanien. La mostra è la prima presentazione del progetto di ricerca The Peripatetic Film & Video Archive, sostenuto dall’Italian Council 9, un archivio dei filmati girati dall’artista dalla fine degli anni ’80, utilizzando la videocamera come se fosse un diario e/o un album per appunti.

In Chiapas Ezln/Genova G8, senza rivoltelle 1996-2021, presente nella mostra L’Archivio insorgente a Modica, così come nel sito del Peripatetic Film & Video Archives, frammenti di vita come haiku creano un corto circuito tra l’immediatezza e la poesia. Come nasce questo modo di fare «arte»?

Una curiosità e una fiducia indefesse nella vita di strada, nel caos e il farsi di una comunità. Credo che, per la maggior parte delle riprese fatte negli anni, portando costantemente con me la camera, fosse un modo di relazionarmi con i contesti, gli ambienti, i territori che attraversavo, non rinunciando mai alla possibilità di un’immediata relazione con chi li abitava, anche solo temporaneamente o con un’intesa fortuita. Tecnicamente vuol dire tenere un occhio nel mirino e l’altro fuori, per rendersi conto di cosa sta succedendo mentre si gira e inquadrare di conseguenza.

«The Peripatetic Film & Video Archive» è una raccolta di filmati girati dalla fine degli anni ’80. Nasce dal desiderio di condivisione di filmati, testi e cartografie, o c’è anche la volontà di rivedere momenti storici come il movimento no-global e il G8 di Genova, con occhi diversi?

Il progetto di ricerca per l’archiviazione nasce proprio dal desiderio di condividere questo materiale e far vivere le immagini oltre un’impostazione autoriale. Preoccupandosi di archiviarle per il loro uso futuro e prendendomi la briga di indicare itinerari e percorsi nella sezione di Affective Mapping ed evidenziare i testi che mi hanno sostenuto nella ricerca e nel tracciare la genealogia del progetto stesso. A cominciare dal fondamentale Atlante delle emozioni di Giuliana Bruno.

«TPF&VA n.0», exhibition view (courtesy of the artist)

Il progetto si declina attraverso parole chiave, come «Feminisms», «Collective decision making». È una ricerca in progress che prevede altre keyword?

Le aree tematiche sono impostate come derive nelle quali confluiscono varie parti del sito. Le keyword sono fatte anche di simboli i cui rimandi vanno interpretati da chi ne usufruisce. Alcuni sono ancora in via di definizione.

Le sezioni che verranno implementate di continuo saranno quella del Footage e dell’Affective Mapping, oltre gli aggiornamenti.

Secondo Dora Garcia, un archivio diventa interessante nel momento in cui inizia a scomporsi…. Lei cosa ne pensa, si sente più vicina a una pratica classificatoria o ricombinante/investigativa?

Tutte e due. Ho intrapreso un processo inverso a quello che la maggior parte degli artisti che lavorano con archivi hanno fatto negli ultimi anni, cioè indagare e scomporre un archivio esistente.

Nel mio caso ho scelto di costituire un archivio e inventarne le coordinate. Una questione centrale, infatti, è l’organizzazione di un fondo di immagini in movimento che si pone criticamente rispetto all’idea monolitica tradizionale di cosa sia un archivio. Come rendere tutto ciò attraversabile e poroso?

Nell’agire in fieri degli aggiornamenti, nel lasciare allo spettatore le scelte di cosa e come guardare, nell’indicare traiettorie che possano essere sviluppate altrove, nel mappare progetti vicini che si occupano di, o provengono da margini geografici di genere, di attivismo e di produzione del pensiero e traghettarli al centro del discorso. Cercando anche di produrre le restituzioni del TPF&VA in contesti e luoghi che agiscano su coordinate di commoning e non gerarchiche.

Nel suo lavoro, ci sono esperienze di vita personali, professionali e pratiche partecipative dialogiche. Può parlarci di collaborazioni particolarmente significative per il progetto?

L’attitudine Diy del punk e della controcultura storica, come il personale è politico dei femminismi o le produzioni no o low budget del cinema indipendente fino ai primi anni ’90, sono le matrici di questo progetto. Sono gli ambiti da cui provengo e in cui mi sono formata. Riuscire a convogliare il materiale della collezione di footage in una cornice di questo stampo è stato ed è lo sforzo più grande. A sua volta, genera collaborazioni con artiste/i e intellettuali come Giuliana Bruno, Silvia Federici, Simone Osthoff che hanno dato l’autorizzazione a usare alcuni loro testi nel tracciare le fondamenta di alcune sezioni dell’archivio.

Come è stato presentato l’archivio nella mostra di Berlino?

Essendo la prima manifestazione di TPF&VA volevo dare un’idea dei materiali presenti usando spezzoni in vari formati e creando un itinerario tematico. Ho riflettuto sulla pandemia e cosa fosse mancato in quei periodi ed ho scelto immagini di folle di gente e panorami naturali.

C’è una colonna di monitor analogici in cui ognuno ha un paesaggio, uno schermo di juta con disegno in gesso sviluppato in verticale su cui è proiettata una processione, girata anch’essa in verticale. Un altro schermo in juta con disegno in gesso sviluppato in orizzontale con tre spezzoni di un nubifragio su un fiume, una foresta verde fittissima, un villaggio di pescatori con palafitte. Su un muro è invece proiettato un carnevale con dettagli di corpi gioiosi, bagnati dalla pioggia che ballano e cantano.

L’audio della processione si incontra con quello del carnevale. Su un monitor Lcd si può vedere e sentire in cuffia l’unico lavoro montato, Chiapas Ezln/Genova G8, senza rivoltelle 1996-2021. Chi osserva può muoversi e scegliere la posizione, non c’è un unico modo di guardare il retro dello schermo di juta con disegno in gesso, che ha un’ulteriore valenza dal suo stesso fronte. Ho voluto creare un luogo in uno spazio e una libertà di scelta.