Visioni

Manu Chao, la scommessa dell’anarchico vagabondo

Manu Chao, la scommessa dell’anarchico vagabondoManu Chao – foto di Moises Saman/Magnum photos

Note sparse Dopo diciassette anni arriva «Viva tu», nuovo album per il cantante parigino di origini ispaniche

Pubblicato 16 giorni faEdizione del 18 settembre 2024

Diciassette sono gli anni trascorsi da La Radiolina (2007), ultimo album in studio di Manu Chao. Ma il cantante parigino di origini ispaniche, fondatore della storica rock band Mano Negra, è sempre stato presente disseminando collaborazioni e con il suo incessante peregrinare, anche la scorsa estate il suo tour ha attraversato l’Italia con una serie di sold out. Manu Chao è un vagabondo anarchico, anche seguendolo nei social difficilmente lo vediamo per più di qualche settimana in Brasile, Senegal o in Nepal, poco importa, arriva con la sua chitarra, suona su una panchina, in un bar, su un palco davanti a migliaia di persone, porta il suo attivismo e la sua visione del mondo, dialoga, si confronta, conosce, crea comunità, abbatte frontiere. La sua missione è fomentare quel vento di libertà con cui segnò una o due generazioni quando pubblicò i suoi primi album solisti: Clandestino (1998) e Proxima estacion: Esperanza (2001). Dischi con brani come Clandestino, Bongo Bong o Me gustas tu che ancora oggi girano nelle radio di mezzo mondo. Un artista amato e stimato, a suo modo distante, la ritrosia alle interviste, refrattario al successo, eppure sempre fra la gente, contro le ingiustizie, insofferente all’industria musicale, salvaguarda i suoi ideali e non svende le canzoni, quando necessario le regala, accontentandosi. Il paragone che frequentemente viene fatto con Bob Marley non è così campato in aria.

Canzoni tra amore, povertà, guerra e pacifismo. Un osservatorio sulla realtà

TANTI sono i libri sulla sua figura, altrettante sono le storie non scritte, quelle che istituiscono il mito, legate a concerti per questa o quell’altra associazione nati col passaparola o al suo spendersi per cause che ritiene giuste, racconti che chi scrive ha ascoltato innumerevoli volte nei bar del barrio Raval o del Gotico di Barcellona, città di adozione di Manu Chao, dove lo si può ancora incrociare. Ed eccoci allora a Viva tu, 13 brani, dove affronta i temi che gli stanno a cuore: amore, povertà, la guerra, il pacifismo, la strada, la precarietà, il lavoro. Proprio uno dei singoli, São Paulo Motoboy è un poetico omaggio ai rider di San Paolo che rischiano la vita fra folli corse nel traffico. Brani dai suoni più puliti di venti anni fa ma che, come allora, esprimono l’essenza meticcia di un autore che canta in spagnolo, francese, inglese, portoghese, con generi che appaiono, scompaiono e si fondono, come il flamenco in Viva tu e La Colilla, quest’ultimo uno di quei brani/quadro in cui riesce a restituire l’intimità e la suggestione di osservare da un terrazzo l’umanità che scorre giù in strada. Heaven’s Bad Day con feat di Willie Nelson è una ballata country, mentre Tom e Lola è affine alle sonorità della canzone popolare francese, fisarmonica e fischiettio, come nell’album meno conosciuto di MC, Sibérie m’etait contéee (2004). Ad aprire però è Vecinos en el mar, chitarrina e home recording digitale per un inno di speranza indirizzato a chi attraversa il mare e per chi, dall’altra parte, è pronto ad accogliere chi segue la propria fortuna. Chiude Tantas Tierras, brano per sensibilizzare sulla fragilità del nostro pianeta, uscito lo scorso anno sui suoi canali e in cui riuniva nove musicisti.

MC È IL FLANEUR che percorre le strade, osserva e racconta con ispirata sensibilità (magistrale la stupenda Cuatro calles) anche la più cruda realtà di periferia, rendendo popolari eppure unici la nostalgia, l’abbandono (Tu te vas) ma anche la festa di chi sembra destinato a un viaggio perpetuo. Il disco più che da ascoltare è da assorbire, farlo girare tanto, perché questa sembra resti la scommessa di Manu Chao. Introiettare la musica per vivere in pace.

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