Da sei settimane, un mese e mezzo, al senato è aperta la sessione di bilancio. La legge più importante dell’anno, la prima di cui il governo Meloni rivendica pienamente la maternità, è un volume di 260 pagine, 109 articoli più tabelle. Un testo impegnativo da affrontare e votare, ma non è successo ancora nulla, non si è spostato un euro, non è stato approvato un comma. È tutto fermo, in attesa che il governo presenti la vera legge di bilancio, sotto forma di emendamenti. Le trattative ci sono, le mediazioni pure ma sono tutte a palazzo Chigi e in parlamento arrivano appena gli echi di un lavorio che riguarda solo la maggioranza.

I senatori aspettano, i deputati neanche perché ormai hanno capito che saranno richiamati in aula tra natale e capodanno a votare e tacere.

Accade così da tempo, ma ogni anno è un po’ peggio. Stavolta la presidente del Consiglio si era fatta vanto di aver depositato la legge quasi nei termini, a ottobre, e aveva garantito che sarebbe stata approvata presto, prima delle feste. Aveva anche detto che la sua era una manovra blindata, spingendosi a vietare gli emendamenti di maggioranza. Poi però, da un mese e mezzo, tra di loro non parlano che di modifiche e di emendamenti. Quando avranno deciso giocandosi a tressette in famiglia le ultime risorse – pare che il Ponte di Salvini abbia pescato le carte peggiori – marceranno sul parlamento, che nel frattempo si è intrattenuto in audizioni e dossier bugiardi perché riferiti a un testo vecchio, a una legge per allodole. Sui nuovi articoli, stringendo ormai il tempo, al senato ci sarà spazio solo per fiducie e voti blindati. Poi alla camera si salterà persino l’esame in commissione, con tanti saluti alla Costituzione che prescrive almeno per le leggi di bilancio una procedura «normale» di approvazione.

È questa in fondo la nuova normalità, sulla quale i moniti del Quirinale non riescono a incidere. Perché sta diventando un’abitudine far girare a vuoto il parlamento e quello attuale in versione bonsai è il primo con un numero ridotto di deputati e senatori: «Saranno tutti più autorevoli», garantivano i 5 Stelle. Altroché. Poi succede che le camere approvino un raro disegno di legge come quello che vieta la carne coltivata e il governo faccia sapere al Quirinale che cambierà quel testo per decreto. O che l’opposizione abbia diritto di portare in discussione una sua proposta sul salario minimo e il governo dopo aver lasciato parlare trasformi tutto in una delega a se stesso. Se proprio le camere devono lavorare, basta trovargli qualcosa di innocuo da fare.

Il fenomeno di fondo non è nuovo, ma nuovo è il grado di arroganza con il quale il governo di destra riesce a mettere il parlamento nell’angolo. Nuova e preoccupante è anche l’impossibilità, o l’incapacità, delle opposizioni di ostacolare almeno un po’ questa tendenza.

Servono dunque più poteri, serve una delega piena e definitiva all’esecutivo e alla presidente del Consiglio in una situazione come questa? Serve il premierato perché è tutta colpa della Costituzione vecchia e da cambiare se Meloni, malgrado non abbia praticamente ostacoli tra sé e la “Gazzetta ufficiale”, non sta riuscendo a ottenere risultati e procede al ritmo di una promessa tradita al mese? La risposta è troppo facilmente negativa e anche quello che sta accadendo sulla legge di bilancio conferma il senso vero della riforma costituzionale: un grande alibi per un governo incapace.