Manovra, il divorzio Renzi-governo
Da Firenze l’ex premier muove le truppe contro Gentiloni, che non nasconde l’irritazione. Ma il segretario Pd raccoglie pochi consensi sulla mozione contro la manovra aggiuntiva, da lui stesso resa indispensabile. E i falchi di Berlino ci attaccano
Da Firenze l’ex premier muove le truppe contro Gentiloni, che non nasconde l’irritazione. Ma il segretario Pd raccoglie pochi consensi sulla mozione contro la manovra aggiuntiva, da lui stesso resa indispensabile. E i falchi di Berlino ci attaccano
Tra l’incudine e il martello. Tra il Renzi furioso che bombarda una manovra aggiuntiva inevitabile per colpire il governo, e il presidente della Bundesbank Weidmann che cannoneggia l’Italietta per abbattere Draghi, e poco male se l’effetto collaterale sarà l’affondamento della penisola.
La mozione con in calce la firma di 39 deputati renziani che più renziani non si può, quella che chiede di soprassedere sull’aumento delle accise di benzina e tabacchi per affidare il recupero dei 3,4 mld reclamati dall’Europa solo al «taglio della spesa pubblica improduttiva», ha mandato il governo fuori dai gangheri. Gentiloni smentisce l’ira, ma non spera che qualcuno ci creda. Quella mozione è un atto di guerra, anzi di guerriglia, non a caso decisa da Renzi dopo aver letto i sondaggi che registravano un governo ormai più popolare di lui. «Sono fuori dal mondo» commentano sbigottiti al Mef, dove sanno bene, cifre alla mano, che lo scontro con l’Europa costerebbe, tra procedure d’infrazione (se ne rischiano due, non una sola) e ulteriore impennata del debito pubblico, ben più dei 3,4 mld richiesti.
L’affondo di Renzi, in realtà, si è già rivelato un boomerang. Trentanove firme, alla Camera, sono poche, superano di misura il 10% del gruppo Pd. Certificano che un agguato parlamentare, senza l’appoggio del grosso delle truppe che risponde a Franceschini più che all’ex premier, non avrebbe alcuna possibilità di successo. In più la manovra, decisa dal capo da Firenze e organizzata dai pasdaran, ha irritato gli stessi deputati renziani vicini a Gentiloni, come Roberto Giachetti, che non erano neppure stati consultati prima di passare alla dissennata azione.
Renzi ha capito l’errore. Ha cercato di riparare invitando il ministro Padoan alla direzione di lunedì. Ma pur consapevole di non avere la forza per sfidare un governo di ora in ora meno suo, neppure vuole rinunciare a un’arma come la guerra santa contro le tasse, che immagina vincente per due motivi: perché certamente popolare e perché potrebbe rivelarsi l’ordigno giusto per far saltare il banco e strappare quelle elezioni in giugno alle quali non riesce a rinunciare.
Ma la tensione crescente tra governo e segretario del Pd su un tema esplosivo come i conti pubblici si inserisce nel quadro di una guerra europea di ben più vasta portata, della quale tuttavia proprio l’Italia rischia di pagare il prezzo più salato. L’attacco di ieri del presidente della Bundesbank è stato feroce e impietoso. Weidmann ha parlato di «aspettative deluse». Ha preso di mira l’intera politica economica e finanziaria italiana dal varo della moneta unica: Roma ha deluso le «attese di chi aveva scommesso che gli sforzi di risanamento intrapresi prima dell’ingresso nell’unione monetaria sarebbero continuati anche nello spazio valutario comune». E poi, rivolgendosi a uno dei dirigenti della Banca centrale tedesca più esperti nelle cose d’Italia, Arno Baecker: «Lei si chiedeva nel 2000 se il ritmo delle riforme sarebbe stato sufficiente per riguadagnare il terreno perduto nella competitività internazionale. Il fatto che ancora discutiamo della bassa crescita italiana è la risposta».
Probabilmente non è un caso se la requisitoria di Weidmann, con il ministro delle Finanze Schaeuble capofila del fronte rigorista, arrivi meno di 24 ore dopo l’incontro tra Draghi e la cancelliera Merkel, oggi di fatto alleati nel fronteggiare l’offensiva dei falchi che mirano certamente a seppellire le odiate «politiche espansive» della Bce e probabilmente anche a raddoppiare la moneta, separando l’euro forte del nord da quello di serie b. Ma non è neppure casuale che, per rispondere colpo su colpo all’asse «morbido» Draghi-Merkel, Weidmann abbia preso di mira direttamente l’Italia.
La mossa guerrigliera e di stampo assai più politico che non economico, dei deputati renziani rischia di offrire ai panzer della Bundesbank e del ministero delle Finanze tedesco un’occasione d’oro per mettere con le spalle al muro Draghi sul fronte più fragile che ci sia oggi nell’eurozona, quello italiano. Non c’è da stupirsi se a palazzo Chigi, a via XX settembre e in realtà un po’ in tutti i ministeri la trovata dinamitarda di Renzi sia stata accolta con massima irritazione. Ma un segretario del Pd con le spalle al muro difficilmente potrà evitare di marcare di nuovo la distanza da un governo costretto dall’Europa e dalla situazione generale a marciare in direzione opposta alla sua.
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