Mannarino: «I miei antidoti contro i mali del sistema»
Musica Esce oggi «V», il quinto disco del cantautore romano
Musica Esce oggi «V», il quinto disco del cantautore romano
Lo spirito dei tempi è tutto nella lettura soggettiva dell’autore, quando parla di «ricerca di anticorpi contro il virus della disumanità», una protezione immunitaria da suggere al seno di una Venere indigena di cuore africano e respiro amazzonico. «Non è un paradiso perduto, ma solo da ritrovare, recuperando lo stupore verso ciò che ci circonda». Nel raccontare il quinto volume della sua discografia, V (Polydor/Universal), in uscita oggi, Alessandro Mannarino parla di «disco metafisico, impregnato di cosmogonia animista» che tuttavia rimette l’uomo al centro della realtà «perché è egli stesso a crearsela attraverso la propria percezione. Nell’album parlo di elementi primordiali come il tuono e il lampo, e del modo in cui l’uomo li interpreta: “l’attimo che vi divide è tutto quello che sono”». A quattro anni da Apriti cielo, definito a posteriori «la bozza di quest’ultimo lavoro» il cantautore romano si cimenta con la forma del concept album: «una storia d’amore tra l’uomo e la realtà, il cui personaggio principale è la donna, che viene dal passato e va verso il futuro». Donna che è natura e madre, terra e acqua, corpo e anticorpo per guarire dalla disumanizzazione del presente.
LA METAFISICA si fa politica nel doppio registro in cui si articolano i testi: «Mi sono interrogato a lungo sul cosiddetto sistema, e sulla perenne ricerca di antidoti contro il neoliberismo imperante. Nel disco ho voluto usare immagini ancestrali per parlare del presente». Inevitabile, allora, pensare a Bolsonaro tra i versi di Amazònica scritti in Brasile e cantati dalle indigene As Karuanas, portavoci del dolore collettivo di chi ha perso la vita nella perdurante lotta contro i garimpeiros appoggiati dal governo, «un vero genocidio per mettere a tacere questa parte ancora resistente e vitale dell’umanità, colpevole solo di aver mantenuto il rapporto con la natura e il senso di comunità». Impegno politico non solo nei versi ma anche nel suono: «Ho capito che per affrontare il tema dovevo essere io stesso il primo a uscire da un certo sistema musicale». Riprendendo i principi deandreiani che furono alla base di Creuza de mä, Mannarino confessa l’urgenza di «realizzare un disco che non fosse legato ai precetti del mondo anglosassone» evitando al contempo di cadere nel cliché: «Non è un album world, non parla delle musiche del mondo ma vive nel mondo. Africa, ad esempio, non è un pezzo di musica africana, e gli indigeni siamo noi stessi: quando in Agua canto “la croce, la spada, la rabbia” parlo proprio di noi». Doppio registro anche nella musica, fitta di suggestioni afroamericane che convivono con l’elettronica, mentre la voce si spartisce il proscenio acustico con le percussioni. «Sono contento che finalmente mi fai parlare di musica», esclama, quando gli chiedo di riassumere il processo compositivo che dal 2019 ha portato alla pubblicazione.
«NEGLI ULTIMI ANNI ne ho ascoltato tantissima, con l’idea di legarmi alla natura mantenendo al contempo strumenti contemporanei, anche per essere competitivo a livello di sound». Soluzione raggiunta per tentativi ed errori, in una lavorazione biennale che prima del lockdown è stata quanto mai itinerante: «Ho iniziato a scrivere e fare sporadiche incisioni in Brasile. Poi due anni fa sono andato negli Usa con Mauro [Refosco, il suo percussionista brasiliano] spostandomi in seguito a Città del Messico dove ho inciso una dozzina di brani dei quali solo uno, Banca de New York, è finito nel disco. Di nuovo in America per collaborare con Bobby Wooten e Joey Waronker — basso e batteria — per poi tornare in Italia ad aprile 2020, data inizialmente fissata per la consegna dell’album». A quel punto, il lockdown e la cancellazione del tour: «Non ci crederai ma ho esultato, perché sapevo che l’album non era maturo. Mi serviva più tempo, ho riscritto brani interi oltre a rielaborare in studio quanto registrato in precedenza. Ho fatto il conto: in un anno, da aprile ad aprile, ho passato 220 giorni in studio!». Tempi supplementari che fanno la differenza, segnando lo scarto rispetto ai lavori precedenti: «Ho avuto il tempo di andare avanti nella ricerca intrapresa con Apriti cielo, senza paure e senza l’obbligo di piacere a ogni costo».
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