«Parla come mangi», oppure, come disse il filosofo, «L’uomo è quel che mangia».
Quando si tratta del cibo si oscilla lungo un confine che segna da una parte abissi ontologici, e dall’altro la più materiale delle condizioni vitali. (Non siamo la civiltà che si mette in comunione col suo Dio mangiandone una particella?). Qualcosa verso la quale ci attira un desiderio a volte fortissimo – che si immischia misteriosamente con l’istinto e necessità organiche che governiamo poco – ma spesso suscita tic densi di ripugnanza. Per non parlare dei “disturbi alimentari” che accompagnano le difficoltà dell’anima.
Mi ha attirato verso quest’area linguistica, diciamo così, insidiosa un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale dal titolo “I ricchi hanno smesso di mangiare”, scritto da Serena Smith su Dazed, un sito e un magazine americano (la parola, se non ho capito male, significa “stordito/a, meravigliato/a, confuso/a”). Ne dirò qualcosa.
Ma intanto sono rimasto stupito dalla complessità della voce mangiare dell’amato “Dizionario etimologico on line”.
Si parte da varie declinazioni della parola (dal dialetto sardo a varie lingue europee) per arrivare al latino manducare. Vabbè, direte, masticare, mangiare, non stare a farla lunga. Segnalo però che vengono indicate antiche radici che significano anche liquefare, ammollire (es.: madido, mammella) e persino – risalendo al sanscrito inebriarsi, ubriacarsi. Per non dire dei significati metaforici: rodere, consumare, sopraffare, rubare (…quello ci sta mangiando sopra…). Ecc. Mi viene in mente anche un detto genovese che traduco: non farti mangiare! Cioè, non farti fregare, sorpassare, sconfiggere. Ancestrali reminiscenze antropofaghe?
Ora l’articolo a proposito delle strette diete dei ricchi afferma che ai nostri giorni «chi fa parte dell’un per cento più ricco del pianeta si comporta come se avesse domato definitivamente la fame». Esempi illustri: «Il cofondatore di X (ex Twitter fagocitato da Elon Musk) Jack Dorsey ha dichiarato di digiunare per 22 ore al giorno, mentre il miliardario biohacker Bryan Johnson (uno, scopro, che «sta cercando di vivere per sempre», come scrive Vanity Fair) ha giurato di astenersi dal mangiare per 23 ore al giorno».
Questa dimensione meramente quantitativa sembrerebbe lasciarsi alle spalle, quasi di colpo, secoli di tradizioni secondo le quali dal «come mangi» e «che cosa mangi», oltre che dal «quanto mangi» si capiva piuttosto precisamente a quale classe appartenevi. La carne di cervo non sta sulla tavola dei contadini intenti a mangiare patate dipinti da Van Gogh.
E non ditemi che «le classi non esistono più». Non dimentico, tornando di nuovo per un attimo a Genova, che Edoardo Sanguineti – ho avuto il piacere di frequentarlo un po’ quando lui era consigliere comunale a Palazzo Tursi e io un giovane cronista alle prime armi – disse una volta, spazientito da questa storia della scomparsa delle classi sociali, che la provenienza di classe si capisce al volo guardando solo come uno si fa la barba.
C’era forse un granello di ironica provocazione intellettuale ma anche qualche grano di verità.
Oggi si rischia di cadere o nella grande classe popolare di chi mangia troppo e male – subornati dalle pubblicità di panini alti qualche decimetro e ripieni di chissacché – e quindi si ammala, o l’altra grande classe, in particolare femminile, ma non solo, che vuole conquistare e mantenere il corpo più snello possibile. E si ammala. Ciò che manca, in realtà (almeno nella realtà che credo di vedere) è la coscienza di classe.
Chissà che un modo finalmente efficace di ricostruirla non passi per la ricerca della dieta più adatta.
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