A ogni nuovo libro di Manganelli occorrerebbe rifare il calcolo di quanti siano ormai i titoli postumi, la cui somma è ovviamente sempre più squilibrata rispetto a quanto pubblicato in vita; ma ormai si tratta di un’evidenza sulla quale sarà meglio mostrare disinvoltura, destinata com’è a persistere, sempre incrementata anzi, nei secoli a venire. Però, oltre a constatare il buono che abbiamo avuto, comincia anche a mostrarsi qualche tessera dell’utile che avremo (non disgiunto, come in una classica coppia, non sempre disgiunto almeno, dal bello). Si tratta delle tessere epistolari, che aprono squarci nuovi e inattese, a volte, possibilità di lettura. Ora, per esempio, le lettere raccolte e commentate da Salvatore Silvano Nigro sotto il titolo di Mia anima carnale (Sellerio «La memoria», pp. 116, € 13,00) presentano sì le pirotecniche manganellerie che siamo abituati ad attenderci, e che tanto più ci si aspettava in quest’occasione, visto che si tratta di un carteggio, diciamo così, d’amore e, per dir meglio, del carteggio di un’amicizia presto accesa in passione e poi tornata a una consuetudine meno visionaria.
Ma il fatto aggiunto è che la corrispondente, Ebe Flamini, ha nei suoi immediati dintorni una serie di richiami che aprono a Manganelli l’accesso a un mondo anche politico di notevole interesse per la ricostruzione della di lui fisionomia (e biografia) intellettuale. Se, per esempio, si era abituati a vedere la politica in Manganelli come un luogo occasionale e magari come un luogo identico ad altri per manifestare l’arte del paradosso, dell’acrobazia linguistica, dell’acutezza anche con l’infilzatura di due parolette fin allora tanto lontane, ecco che adesso, nella ricostruzione del contesto in cui si collocano le poche carte del dialogo, (spesso da luoghi lontani: mai manca l’amata come quando è lontana, mai il desiderio si accende come quando non può essere appagato), il curatore far riapparire in scena chi allora fu in scena.
La prima lettera, per dire, è inviata da Giorgio a Ebe presso la villa «La Rufola» di Sorrento: «Gentilissima, Cara, Carissima Ebe (fa’ un po’ tu), ho ritardato per qualche giorno il piacere di scriverti, come il ghiottone che si trastulla con le argentee posate, chiacchiera e si svaga, mentre lo attende un fastoso antipasto, barocco e fratesco; ma oggi mi invito al festino, stappo spumanti, spolpo ananassi e aragoste. Le giornate alchimiche da Roma a Roma via La Rufola perdurano nella memoria: e le parole della signorina Giuliana mi stanno addosso come un arrogante piviale vescovile. Ho consegnato la lettera al Frassineti Augusto, che, lettala, ha ghignato…».
Siamo nel 1960. Ospite spesso di Giuliana Benzoni, in quella villa Ebe ha assistito durante i suoi ultimi giorni Gaetano Salvemini. E Giuliana «era la gran dama dell’antifascismo italiano. Apparteneva alla nobiltà milanese», scrive Nigro. Una figura che rimane dentro i pensieri di Manganelli, che alla scomparsa, 1981, ne scrive un epicedio sul Corriere della Sera: «la morte di Giuliana Benzoni concludeva un lungo, geniale, fantasioso capolavoro; e, insieme, un capolavoro esatto, che non si sapeva se lei stessa aveva creato, o le era stato donato da quello Spirito che nella sua vita aveva recato altezza di dolore e vastità di gioia». Un Manganelli dall’inatteso sentire? O non piuttosto un Manganelli il cui vero sentire viene diretto alla luce?
In più, la parte politica: Giuliana e Ebe sono il ponte tra Manganelli e «Il Mondo», per fare un solo rimando; e perché Ebe, come scrive nelle sue memorie Giuliana, in un apposito ministero per l’assistenza post-bellica vide muoversi intorno vecchi e più giovani letterati sotto la direzione di Frassineti; per poi diventare segretaria dell’Associazione italiana per la libertà della cultura, fondata da Silone nel 1950 insieme a Guido Calogero, Francesco Compagna, Lionello Venturi e a colui che poi lo accompagnò nella direzione di «Tempo presente», Nicola Chiaromonte.
Questi gli inizi di un breve romanzo intellettuale che corre accanto e dentro rispetto al Manganelli più noto. Dunque, non soltanto una passione fisica insinuata e poi cantata e lodata con raffinata esplicitezza, ma un paragrafo per niente trascurabile di storia intellettuale e politica italiana.