Cultura

Manfred Spitzer: «il rischio è la demenza digitale»

Manfred Spitzer: «il rischio è la demenza digitale»Manfred Spitzer

NEUROSCIENZE Un'intervista con il direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 aprile 2018

Non solamente violazioni della privacy, ma anche danni alla salute. Mai come in questo momento il mondo digitale sembra essere messo sotto accusa. E si tratta di accuse pesanti, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze sulle future generazioni. A dirlo è Manfred Spitzer, direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media (Demenza digitale e Solitudine digitale, per Corbaccio). La tesi è lapidaria: l’abuso dei nuovi strumenti rende «malati» e gli effetti creano conseguenze drammatiche, sia sulle capacità cognitive che sull’empatia necessaria per avere rapporti sociali fisiologici.

Professor Spitzer, quali sono i dispositivi che causano demenza e solitudine?
Attualmente il più tossico è lo smartphone perché ha più di 4 miliardi di utenti. È connessione costante e fruizione informatica permanente. Si può giocare, guardare video e televisione. La questione più critica è quella di dare questi apparecchi ai bambini senza alcuna supervisione, prima che essi siano maggiorenni.

Sembra che lei stia parlando di qualcosa di molto simile a una droga…
Di fatto lo è. Coloro che hanno una dipendenza da facebook attivano i medesimi centri cerebrali. Sappiamo con certezza che non è un problema di come rappresentare questa dipendenza. Abbiamo le diagnosi. Quindi penso che dovremmo trattare gli smartphone come facciamo con fumo e alcool.

Lei è molto critico anche sull’uso del computer nelle scuole…
Sì, i ragazzi non imparano meglio attraverso i computer. Questo è stato dimostrato innumerevoli volte. I bambini entrano in multitasking ovvero si distraggono e non seguono in modo corretto. Il computer così non velocizza l’apprendimento, né lo incrementa.

In Italia il sistema educativo a molti sembra antiquato.
Non c’è niente di male nei sistemi educativi antiquati. Lo ripeto: il computer non va bene per imparare. Quando hai un’attività mentale esterna (outsearched mental activity), questa non prende posto all’interno del tuo cervello. Mentre è proprio quell’attività a coincidere con l’apprendimento, altrimenti non impari. Per esempio, se fai un esercizio aritmetico nella tua testa, lo apprendi. La stessa cosa vale per l’ortografia. Se non si allena la specifica area del cervello chiamata ippocampo, si diventerà molto meno in grado di imparare.

Come è la situazione in Germania?
Diverse persone che lavorano in ambito economico oggi si accorgono che molti giovani che iniziano a lavorare non sono più in grado di calcolare percentuali o frazioni, anche se in possesso di maturità. Quindi la Germania dei prossimi 20 anni potrebbe essere destinata a perdere capacità nelle esportazioni.

Quindi cosa possiamo fare?
Il fattore di rischio preminente nello sviluppo della demenza è l’educazione. Più sei istruito, più sei protetto. Oggi abbiamo bisogno di riavviarla senza i computer, non «googleando» ogni cosa, perché non si può usare Google se non si sa nulla. Spesso il cervello viene paragonato a un computer, ma è completamente sbagliato. Il cervello non ha una Cpu e nemmeno un disco fisso. Ci sono cento miliardi di neuroni che si parlano, cambiando le loro interconnessioni. Questi cambiamenti consistono nella memoria, il parlarsi tra loro nell’elaborazione. Non c’è differenza tra elaborazione (processing) e stoccaggio (storage). Quando si parte da una mente istruita la demenza può arrivare anche 200 anni dopo. Ma come in ogni discesa, dipende da che altezza si parte: più si è in alto, più ci vorrà tempo per arrivare in fondo.

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