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Mandel’štam, gli uncini al lume degli occhi

Mandel’štam, gli uncini al lume degli occhiGiuseppe Caccavale, dal ciclo "Armenia", 2017, Gyumri, Armenia, Museo Nazionale d’Architettura Sergey Merkurov

Giuseppe Caccavale, "Istituto di Traduzione", ed. Dante & Descartes Il cantiere dell'artista intorno alla scrittura del poeta russo, iniziato a parete in Armenia nel 2017, diventa ora un libro corale, una notevole prova verbovisiva

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 23 ottobre 2022

«Quasi come Paul Cézanne si portava di fronte alla montagna Sainte Victoire, così cercavo di portarmi di fronte a una poesia. Disegno, dipingo e scavo poesie, riverso parole nello spazio, lo sforzo ha i suoi sussurri, le labbra dello spazio prendono vita attraverso elementi naturali che costruiscono parole». Così scrive Giuseppe Caccavale a proposito della costruzione di un cantiere durante la Triennale Internazionale d’Armenia che lo vide intervenire a graffito sulle pareti di una stanza del Museo Merkurov di Gyumri nel 2017. E aggiunge: «Aprendo quella porta, si spalancò ai miei occhi lo spazio come un blocco di pietra da scavare e portare al lume degli occhi la poesia di Mandel’štam nell’idioma armeno, l’alfabeto fatto di lettere uncino».
Il lavoro-studio sul ciclo Armenia del poeta russo ha conosciuto poi un ulteriore sviluppo nel 2018: agendo sulle concave superfici vitree di grandi gobelets dal diametro di 32 centimetri, realizzati nelle fornaci del Cirva di Marsiglia, e di qui traslati nella Fondazione Querini Stampalia di Venezia, l’artista ha tenuto a offrire della poesia di Mandel’štam una riflessione sulla luce. Oggi questo lavoro dentro la parola poetica ha portato l’artista a concepire un libro raro per fattura e composizione verbovisiva, che condensa una serie di scritti intorno alla missione «traduttiva» del proprio fare: Istituto di Traduzione, Edizioni Dante & Descartes, pp. 250, e 25,00. Un libro corale che è per l’artista anche una ricerca di lungo corso intorno all’oggetto-libro e che si è avvalso delle competenze linguistiche e curatoriali di Antonella Cristiani, e del disegno grafico di Odilon Coutarel, che ha saputo conciliare chiarezza del dettato visivo e suggestione dell’impaginato altomedioevale dell’erudito Rabano Mauro.
Nel cuore di questo lavoro si situano le pagine de Il mattino dell’acmeismo di Mandel’štam. L’introduzione al testo e la traduzione (la prima dopo più di cinquant’anni in Italia) sono di Marco Caratozzolo, che Caccavale dice di accogliere per volontà di condivisione col lettore. Dietro questa scelta vi è la precisa strategia dell’artista che in essa vede pienamente espresse le linee profonde del proprio umanesimo, che vanno da una certa attenzione alla parola poetica al processo dialogico tra essa e le arti plastiche; dal senso dello spazio a una visione olistica dell’architettonico, fin nel ripensamento del Medioevo come «amore dell’organismo e l’organizzazione», per dirla con Mandel’štam. E come le pagine del poeta russo, riprodotte nel libro con le annotazioni traduttive di Caratozzolo, sono circondate di segni grafici, parole e disegni (a significare l’intenso sforzo di penetrare in italiano la complessità dell’originale mediante vari mezzi espressivi e conoscitivi), così Caccavale ha agito nel tempo intorno, dentro e attraverso la figura: sillabandola, ridefinendola, incessantemente sondandone il senso, per tradurla all’oggi con «la voce della materia».
«Il mio lavoro è un coro di muratori», dice l’artista che pratica l’affresco, il graffito, il mosaico, e intanto stringe la «mano pensante» di Tjutchev, quella del poeta, che in Mandel’štam è anche quella dell’architetto, figura capace di mettere insieme il fare e lo spirito, la materia e l’idea, la pietra e la mente. Non è un caso che un punto di riferimento per Caccavale sia Carlo Scarpa, con i cui spazi si è spesso confrontato. Chiara Bertola ha giustamente notato che più di un’affinità lo unisce con l’architetto: «la conoscenza e l’utilizzo dei materiali autoctoni, la semplicità delle soluzioni, il confronto costante con il lavoro degli artigiani». E così parole e vetri, figure e carte, stupori e pareti sono le materie eterogenee – tutte da decifrare – del costruire di Caccavale, sulla cui origine vale la pena riportare una riflessione perspicua di Pier Luigi Tazzi quando dice: «Caccavale non si colloca né sulla linea di Giotto, che è quella del Moderno, né su quella espressionistica cimabuesca», ma su quella di Pietro Cavallini, che «non esclude il simbolo, ma un simbolo la cui traccia è una figura che resta impenetrabile, che, pure se condivisa, resiste all’analisi».
E Caccavale in fondo non cerca novità o invenzioni. Chiede alla polvere – quella dei pigmenti, dei luoghi, del tempo – di depositarsi nei calibri del dispositivo ottico dello spolvero: una tecnica di riporto del disegno che per lui è prassi traduttiva tra memoria e poesia. Essere precisi nel magma del presente, semplici nella complessità. Disegnare scrivendo e scrivere disegnando: così la linearità del progresso si piega nella curva del ritorno. E ritornano figure di farfalle, di uccelli, di fiori. Ritornano le voci dei poeti, le ali e i cori degli angeli, le mani giunte dai fori prima di essere spolverate nello spazio.

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