«Quasi come Paul Cézanne si portava di fronte alla montagna Sainte Victoire, così cercavo di portarmi di fronte a una poesia. Disegno, dipingo e scavo poesie, riverso parole nello spazio, lo sforzo ha i suoi sussurri, le labbra dello spazio prendono vita attraverso elementi naturali che costruiscono parole». Così scrive Giuseppe Caccavale a proposito della costruzione di un cantiere durante la Triennale Internazionale d’Armenia che lo vide intervenire a graffito sulle pareti di una stanza del Museo Merkurov di Gyumri nel 2017. E aggiunge: «Aprendo quella porta, si spalancò ai miei occhi lo spazio come un blocco di pietra da scavare e portare al lume degli occhi la poesia di Mandel’štam nell’idioma armeno, l’alfabeto fatto di lettere uncino».
Il lavoro-studio sul ciclo Armenia del poeta russo ha conosciuto poi un ulteriore sviluppo nel 2018: agendo sulle concave superfici vitree di grandi gobelets dal diametro di 32 centimetri, realizzati nelle fornaci del Cirva di Marsiglia, e di qui traslati nella Fondazione Querini Stampalia di Venezia, l’artista ha tenuto a offrire della poesia di Mandel’štam una riflessione sulla luce. Oggi questo lavoro dentro la parola poetica ha portato l’artista a concepire un libro raro per fattura e composizione verbovisiva, che condensa una serie di scritti intorno alla missione «traduttiva» del proprio fare: Istituto di Traduzione, Edizioni Dante & Descartes, pp. 250, e 25,00. Un libro corale che è per l’artista anche una ricerca di lungo corso intorno all’oggetto-libro e che si è avvalso delle competenze linguistiche e curatoriali di Antonella Cristiani, e del disegno grafico di Odilon Coutarel, che ha saputo conciliare chiarezza del dettato visivo e suggestione dell’impaginato altomedioevale dell’erudito Rabano Mauro.
Nel cuore di questo lavoro si situano le pagine de Il mattino dell’acmeismo di Mandel’štam. L’introduzione al testo e la traduzione (la prima dopo più di cinquant’anni in Italia) sono di Marco Caratozzolo, che Caccavale dice di accogliere per volontà di condivisione col lettore. Dietro questa scelta vi è la precisa strategia dell’artista che in essa vede pienamente espresse le linee profonde del proprio umanesimo, che vanno da una certa attenzione alla parola poetica al processo dialogico tra essa e le arti plastiche; dal senso dello spazio a una visione olistica dell’architettonico, fin nel ripensamento del Medioevo come «amore dell’organismo e l’organizzazione», per dirla con Mandel’štam. E come le pagine del poeta russo, riprodotte nel libro con le annotazioni traduttive di Caratozzolo, sono circondate di segni grafici, parole e disegni (a significare l’intenso sforzo di penetrare in italiano la complessità dell’originale mediante vari mezzi espressivi e conoscitivi), così Caccavale ha agito nel tempo intorno, dentro e attraverso la figura: sillabandola, ridefinendola, incessantemente sondandone il senso, per tradurla all’oggi con «la voce della materia».
«Il mio lavoro è un coro di muratori», dice l’artista che pratica l’affresco, il graffito, il mosaico, e intanto stringe la «mano pensante» di Tjutchev, quella del poeta, che in Mandel’štam è anche quella dell’architetto, figura capace di mettere insieme il fare e lo spirito, la materia e l’idea, la pietra e la mente. Non è un caso che un punto di riferimento per Caccavale sia Carlo Scarpa, con i cui spazi si è spesso confrontato. Chiara Bertola ha giustamente notato che più di un’affinità lo unisce con l’architetto: «la conoscenza e l’utilizzo dei materiali autoctoni, la semplicità delle soluzioni, il confronto costante con il lavoro degli artigiani». E così parole e vetri, figure e carte, stupori e pareti sono le materie eterogenee – tutte da decifrare – del costruire di Caccavale, sulla cui origine vale la pena riportare una riflessione perspicua di Pier Luigi Tazzi quando dice: «Caccavale non si colloca né sulla linea di Giotto, che è quella del Moderno, né su quella espressionistica cimabuesca», ma su quella di Pietro Cavallini, che «non esclude il simbolo, ma un simbolo la cui traccia è una figura che resta impenetrabile, che, pure se condivisa, resiste all’analisi».
E Caccavale in fondo non cerca novità o invenzioni. Chiede alla polvere – quella dei pigmenti, dei luoghi, del tempo – di depositarsi nei calibri del dispositivo ottico dello spolvero: una tecnica di riporto del disegno che per lui è prassi traduttiva tra memoria e poesia. Essere precisi nel magma del presente, semplici nella complessità. Disegnare scrivendo e scrivere disegnando: così la linearità del progresso si piega nella curva del ritorno. E ritornano figure di farfalle, di uccelli, di fiori. Ritornano le voci dei poeti, le ali e i cori degli angeli, le mani giunte dai fori prima di essere spolverate nello spazio.