«Manager ignoranti e pochi laureati: vicini solo alla Grecia»
L'analisi Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea: «Nell’Europa a 27 siamo il Paese che utilizza meno le professioni più qualificate. Stiamo perdendo le energie migliori»
L'analisi Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea: «Nell’Europa a 27 siamo il Paese che utilizza meno le professioni più qualificate. Stiamo perdendo le energie migliori»
Dati alla mano, il docente di Statistica Andrea Cammelli, direttore del Consorzio interuniversitario AlmaLaurea, non ha dubbi: se si vuole arginare il fenomeno dei “giovani” cosiddetti Neet (not in education, employment or training), in crescita in Italia, si deve solo «incentivare la politica del diritto allo studio».
Professor Cammelli, solo guardando le statistiche ufficiali, rispetto a un anno fa ci sono 300 mila giovani in più che non lavorano né studiano. È un dato in linea con l’Europa?
No, da noi sta aumentando molto di più. Siamo in linea forse solo con la Grecia. E questo accade perché l’Italia non investe sufficientemente sull’istruzione superiore.
Quale è il rapporto tra titolo di studio e occupazione?
Al contrario che da noi, in tutti i Paesi dell’Europa a 27, soprattutto i più grandi, tra il 2007 e il 2011 è cresciuto l’utilizzo delle professioni più qualificate. In Europa si è passati dal 22% al 24%, con punte come nel Regno unito e nei Paesi Bassi che dal 29% sono passati al 30%. Mentre l’Italia è partita dal 18% ma è in calo continuo. Riguardo al numero di laureati, l’Ocse dice che l’Italia ha fatto un grande passo avanti, ma in realtà
siamo rimasti indietro rispetto a tutti gli altri.
Secondo uno studio condotto da Almalaurea, gli occupati che hanno concluso al massimo le scuole dell’obbligo sono in Europa il 22% e in Italia il 36%; col diploma superiore sono invece il 49% negli altri Paesi europei e da noi il 46%. Se guardiamo i laureati, infine, vediamo che sono il
29%
degli occupati europei (in Francia, Germania e Svizzera si arriva al 33%), ma in Italia siamo fermi al 17%. Questo dimostra il nostro ritardo sulla formazione: oggi all’università si iscrivono solo il 30% dei diciannovenni. Stiamo rischiando di perdere energie straordinarie.
Vuol dire che trova più lavoro da noi chi ha meno titoli di studio? Perché?
Perché in Italia i manager con la sola scuola dell’obbligo sono il 37%, mentre nel resto dell’Europa sono il 16%. Ma come fanno manager così a valorizzare i laureati? Pensi che in Germania, Paese con cui siamo soliti fare confronti, i manager con il titolo di studio minimo sono il 7%. Mentre i manager laureati in Europa sono il 44%, in Italia il 15%. Purtroppo noi siamo caratterizzati da piccole e piccolissime imprese, quelle con i manager meno qualificati. Magari con molta inventiva e molte capacità ma che non conoscono le lingue né i mercati, e che hanno meno interesse a investire sui giovani. Tra le aziende con meno di 10 dipendenti, infatti, da noi i manager laureati sono l’8%. Salgono al 14% nelle imprese fino a 49 dipendenti, e al 41% in quelle con più di 50 dipendenti. Va ricordato però che a cinque anni dal conseguimento della laurea solo il 6% dei laureati non trova lavoro. Anche se è vero che la ricerca è più lunga e si guadagna meno. Per questo una percentuale sempre crescente se ne va all’estero, ormai perfino gli ingegneri elettronici.
Prima della crisi il numero di laureati erano a livello europeo?
La crisi da noi non è scoppiata nel 2008: abbiamo cominciato a rallentare almeno da 15 anni. Perché appunto non abbiamo investito sui giovani. Comunque siamo sempre stati in una situazione di grave carenza rispetto alla formazione superiore e universitaria. Pensi che perfino negli Usa, nella popolazione tra i 25 e i 36 anni, c’è il 43% di laureati. Noi ne abbiamo solo il 21%. È chiaro dunque che un Paese come questo, senza materie prime, se non investe sulla cultura si trova svantaggiato. Abbiamo un ritardo storico che deve essere superato, investendo molto di più sul diritto allo studio.
Le cose andrebbero meglio eliminando il valore legale del titolo di studio?
Progressivamente bisognerà pensare di toglierlo. Ma se il governo desse di più a chi rende di più, non con soldi a pioggia ma premiando le università e i ragazzi migliori – e soprattutto le donne, che per ottenere pari opportunità e salari pari a quelli dei loro colleghi maschi devono studiare molto di più – allora potremmo uscire da questa crisi.
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