Man Ray, l’Uomo Raggio
L'incontro Nel febbraio del 1973 una visita indimenticabile alla casa studio dell'artista
L'incontro Nel febbraio del 1973 una visita indimenticabile alla casa studio dell'artista
Saltellava da una parte all’altra di uno spazio malandato, inondato da una luce diffusa, trasformato in uno studio d’arte che sembrava uscito da una foto di Eugene Atget. L’«uomo raggio» non era l’anziano santone delle avanguardie del Novecento che mi aspettavo. Man Ray era un folletto pieno di energia, sembrava l’essenza stessa dell’avanguardia, la sperimentazione fatta persona.
Ero partito la sera prima dall’Italia con il «Palatino», un treno che sapeva di tradotta militare, di ferro arrugginito, sudore e servizi igienici. Era un treno che mi avrebbe portato per molti altri viaggi nella capitale francese alla scoperta dell’arte.
ARAGON, PRÉVERT
Tempo prima avevo conosciuto a Parigi Louis Aragon, poeta del Surrealismo, plenipotenziario per la cultura del PCF, ieratico e aristocratico nella sua elegante giacca nehru di seta. Invece quel giorno, appena sceso dal treno, mi ero recato a incontrare Jacques Prévert, nella sua abitazione di Pigalle che era sorprendentemente il tetto del «Moulin Rouge», con le pale del finto mulino brulicanti di luci che si stagliavano in controluce verso il cielo.
L’autore di Lo stomaco vuoto/ i piedi insanguinati/ marciamo, marciamo, marciando felici… con la sua faccia d’attore stanco e l’eterna sigaretta ballonzolante dalle labbra, aveva osservato ironico, il giovanissimo visitatore italiano. Anche se parlavo un francese stentato avevo superato l’esame. Mi aveva fatto sentire un vecchio amico dei surrealisti e abbracciandomi mi aveva detto, «Salutami Man Ray…» con il quale aveva tentato di fare un film anni prima percorrendo i bassifondi di Parigi per girare scene a caso.
Ed eccolo Man Ray, nello studio-abitazione in una stradina accanto alla chiesa di Saint – Sulpice, a metà strada tra Montparnasse e Saint-Germain-des-Prés.
Basso di statura, occhi mobilissimi e profondi, portava un basco calato sulla testa, occhiali neri di bachelite e sigaro avana. Fin dall’ingresso di casa iniziò una specie di duello a calembour con Maurice Henry, l’illustratore e pittore, surrealista di seconda fila, che mi aveva condotto da lui.
Nato Emmanuel Radnitzky a Filadelfia, il 27 agosto 1890 da una famiglia di immigrati russi di origine ebraica, aveva scelto il nome d’arte che sarebbe diventato famoso, Man Ray «Uomo raggio».
Sulla parete dopo l’ingresso a destra, era appeso Bel tempo, un meraviglioso quadro del 1939, di quasi 3 metri per 3 metri, che l’artista per dieci anni pensò fosse stato bruciato dai nazisti come arte degenerata.
Lo studio era ampio ma affollato di opere, disegni e oggetti di tutti i generi disposti su tanti ripiani di legno in allegro disordine. In fondo al salone, tagliato dalle luci solari zenitali dei lucernai, c’era una specie di casetta di legno che doveva essere la cucina, mentre, appoggiata a una parete c’era una grande scacchiera, forse quella usata per la storica partita a scacchi tra Duchamp e Man Ray nel film Entr’acte.
Fin dai tempi del Pepper Club di New York, il bar sotto il club degli scacchi, Duchamp aveva definito l’amico Man Ray «uno scaricatore», un giocatore di terz’ordine. Più che il gioco, all’artista interessava inventare nuove forme di scacchi e d’arte: «La scacchiera per me era la base di tutta l’arte».
Improvvisamente, da una quinta di legno sul fondo del salone, uscì una donna, che mi venne presentata come la moglie Juliet Browner. Ormai anziana, timida e silenziosa era stata musa e modella dell’artista, Si erano sposati a Hollywood insieme a un’altra coppia di artisti famosi, la pittrice Dorothea Tanning e il surrealista Max Ernst.
Sempre sulla parete di destra c’era la riproduzione incorniciata del quadro Gli innamorati, uno dei più celebri di Man Ray, che aveva una storia curiosa. Molti decenni prima, l’artista vestito elegante per una cena d’occasione, non si era accorto che Kiki, l’amante e modella dell’epoca, che era molto gelosa ma voleva restare estranea a certi impegni mondani borghesi, aveva stampato sul colletto bianco dello smoking un magnifico bacio con le labbra rosse. Del marchio amoroso Man Ray si accorse solo dai sorrisi degli amici durante la cena. Il mattino successivo chiese a Kiki di stampare un altro bacio di fianco a quello della sera prima a riprova che la bocca era la sua e da quel bacio gli venne l’idea di fotografare una bocca e di dipingere Gli innamorati, un paio di labbra fluttuanti nel cielo. Ma ci mise due anni a finire l’opera.
L’artista fece accomodare me e un amico italiano, Luigi Clerici, nel frattempo unitosi a noi, su un grande divano dello studio. Maurice Henry chiese di metterci in posa per una foto. Quando il collega surrealista si apprestò a scattare con una piccola reflex, Man Ray gli diede una sola occhiata, un po’ impietosa.
Ray rispose alle mie domande con gentilezza e sagacia, ma purtroppo non bastò il tempo per fare tutte quelle che avevo in testa. Perciò questi lontani ma indelebili ricordi trovano supporto in una autobiografia dell’artista da me letta nel 1963 e recentemente ritrovata.
L’artista aveva attraversato con la sua arte un secolo e aveva preso parte a due dei più grandi movimenti del Novecento, il Dadaismo e il Surrealismo, ma non aveva iniziato come pittore. Per campare aveva trovato lavoro come disegnatore in una casa editrice di carte e atlanti geografici di New York, «Facendomi notare per la mia abilità di cartografo…», ci tenne a ricordare. Anche se la vita non era facile, rinunciò a una borsa di studio e alla Facoltà di Architettura per frequentare un centro d’arte intitolato a un martire anarchico, lo spagnolo Francisco Ferrer, dove si tenevano corsi di letteratura, filosofia e scuola d’arte di nudo.
«La modella, ricorda l’artista, era una magnifica bionda voluttuosa con la pelle d’avorio; ogni suo movimento esprimeva languore e sensualità. Mi sarei accontentato di stare a guardarla, senza lavorare…»
Un giorno entrò Robert Henri, allora famoso pittore scissionista, che ignorò gli altri allievi, si fermò a guardare il disegno di Man Ray e disse, «Questo è il tipo di cose che alla maggior parte della gente piace e che capisce; tuttavia noi dobbiamo cercare di affermare la nostra individualità, anche a rischio di essere incompresi». Man Ray tenne in mente quell’insegnamento per tutta la vita.
Un giorno al bar del centro Ferrer incontrò un artista appena tornato da Parigi, Samuel Halpert, che aveva studiato con Matisse. Halpert lo consigliò di liberarsi delle scuole e delle influenze accademiche e raccontò a Man Ray un mondo, quello di Parigi capitale dell’arte, allora sconosciuto a New York.
In quel periodo Man Ray studiò a lungo Paolo Uccello. «Il vigore delle sue scene di battaglia mi aveva impressionato». Ma è Leonardo da Vinci che lo illuminò con una frase: «…La prospettiva è il fondamento di tutte le arti».
L’artista passava il sabato la domenica a dipingere e sfogliare libri d’arte, rinunciando volentieri al pranzo per andare a vedere le mostre alla galleria 291 diretta da Alfred Stieglitz, suo primo mentore nel mondo della fotografia d’arte.
Molti pittori dell’epoca, secondo Man Ray, «si sentivano intimiditi dalla macchina fotografica… ma io non trovai pace finché non decisi di farne l’oggetto della mia prossima conquista… Leonardo da Vinci e Dürer non avevano forse dovuto avventurarsi nello studio dell’ottica e di strumenti atti a facilitare il loro lavoro?»
I primi esperimenti fotografici di Man Ray furono più soddisfacenti di quanto avesse immaginato. Si immerse sempre di più nella sperimentazione.
MARCEL DUCHAMP
Un giorno arrivarono nel suo rifugio fuori New York due visitatori: il primo era il collezionista Walter Arensberg e l’altro un francese che non parlava inglese, Marcel Duchamp. I due artisti trovarono difficoltà a capirsi con le lingue. Allora Man Ray prese un paio di racchette da tennis e una palla: sfidò Duchamp a giocare con lui. Iniziò quel giorno, giocando a tennis su un prato senza una rete, un sodalizio artistico tra i più importanti del Novecento.
I due artisti crearono il ramo «americano» del dadaismo. Ma poi sostenne Man Ray: «Chi ha fatto il Dada? Tutti e nessuno. Io facevo il Dada quando ero piccolo e venivo sonoramente sculacciato da mia madre. Adesso tutti pretendono di essere gli autori di Dada…»
L’amico Duchamp, che stava costruendo nel suo studio una macchina artistica misteriosa, un giorno la volle provare davanti a Man Ray. Era fatta di vetri, spirali e cuscinetti. Accese il motore. L’apparato cominciò a ruotare sempre più vorticosamente, ma si spezzò la cinghia di trasmissione. La macchina esplose facendo volare pezzi di vetro in tutte le direzioni. «Qualcosa mi colpì alla testa, ma di rimbalzo…» ricorda Man Ray, che in quel periodo progettava escursioni artistiche nell’ignoto ed era rimasto affascinato dall’esplosione dadaista della macchina di Duchamp.
Per avere qualche fonte di reddito sicura, iniziò a fare riproduzioni fotografiche di quadri, ma quel lavoro non gli piaceva «Mi ripugnava profondamente, offendeva il mio lavoro d’artista». Duchamp invece aveva deciso di non dipingere più, si dedicava solo agli scacchi e campava impartendo lezioni di francese, anche se non sapeva ancora l’inglese.
IL CINEMA
Dopo i primi esperimenti nella fotografia, Man Ray si impegnò a rivoluzionare il cinema cercando di girare un film «stereoscopico» con due macchine da presa unite con degli ingranaggi. L’artista aveva ben compreso l’insegnamento del poeta greco Bacchilide, «Da sempre nell’arte uno imita l’altro: il difficile è trovare la strada per dire cose mai dette.»
L’esperimento produsse due spezzoni di pellicola che sovrapposti davano un’apparenza di rilievo, ma il progetto, forse il primo di cinema 3D, fu accantonato per mancanza di fondi.
Quando fece la sua prima mostra personale a New York alla Galleria Daniel, i critici reagirono con «disapprovazione o aperta ostilità». Uno di loro definì l’artista «un essere degenerato o un drogato». Il gallerista rimase indifferente agli attacchi della stampa e vendette una dozzina di opere al collezionista di Chicago Arthur J. Eddy per la somma di 2000 dollari. In occasione di altre mostre d’arte, le opere di Man Ray vennero distrutte per protesta da visitatori passatisti, come accadde al Metronomo, così l’artista si ingegnò a farne altre indistruttibili.
«Sono riuscito a renderle indistruttibili… facendo dei duplicati senza difficoltà», mi disse sorridendo, indicandomi con la mano un secondo Metronomo appoggiato su una scansia dello studio.
Agli inizi degli anni ’20, Duchamp partì per la Francia. Man Ray, che aveva dichiarato, «Il Dada non può vivere a New York…», decise di raggiungerlo, sbarcò a Le Havre il 14 luglio del 1921 e prese alloggio nel sobborgo di Passy nella stanza d’albergo che Tristan Tzara, il fondatore del Dadaismo, aveva appena lasciato.
Man Ray non parlava ancora il francese. All’inizio la conversazione con gli altri artisti fu piuttosto difficoltosa. Voleva iscriversi a un corso di lingue, ma Duchamp gli consigliò per imparare più in fretta di trovarsi una ragazza del posto.
L’aria artistica di Parigi era diversa da quella americana. A ogni occasione i dadaisti si producevano in performance estreme. Tra i dadaisti più vivaci c’era il poeta Philippe Soupault, che per declamare i suoi versi si arrampicava perfino sui lampioni.
Un giorno André Breton, Paul Eluard e Louis Aragon andarono in visita a Man Ray e decisero di fare una mostra con le sue opere nella galleria che Soupault stava aprendo vicino al Les Invalides. Venne esposta anche Cadeau, un’opera che sarebbe diventata famosa, un ferro da stiro su cui Man Ray aveva saldato dei chiodi.
Le risorse economiche si esaurirono molto presto, così Man Ray dovette ricorrere di nuovo alla fotografia per avere qualche introito. «Per molti anni rinunciai a qualsiasi tentativo di farmi strada nel mondo dell’arte… (anche se) Nonostante l’attività di fotografo, continuai sempre a produrre un certo numero di opere». Celebri artisti dell’epoca, come James Joyce, Gertrude Stein, Jean Cocteau e molti altri, posarono di fronte alla sua macchina fotografica.
Un noto sarto, Paul Poiret, lo introdusse nel mondo della moda e gli commissionò qualche foto. Man Ray lavorava nella stanza del suo modesto albergo. Sviluppava con due bacinelle posate su un tavolo, «al lume di una candela chiusa in una lanternetta rossa».
RAYOGRAPH
Mentre stava sviluppando a «contatto», il negativo appoggiato su carta sensibile, scoprì il metodo «rayografico», ovvero della fotografia senza macchina fotografica. Aveva posato casualmente un imbuto, un bicchiere graduato e un termometro su della carta fotografica bagnata. Quando accese la luce, vide formarsi sulla carta un’immagine, «deformata rifratta dal vetro, a seconda che gli oggetti fossero più o meno in contato con la carta, mentre la parte direttamente esposta alla luce spiccava in rilievo su fondo nero…». Erano nati i «rayograph» che Tristan Tzara definì prontamente «purissime creazioni dada». L’invenzione dei «rayograph» lo rese celebre, ma per l’artista, «il disegno e la pittura erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo intenzione di sostituirli».
KIKI DE MONTPARNASSE
In quel periodo incontrò Alice Prin, ovvero «Kiki de Montparnasse», modella e musa di molti pittori, che Hemingway in seguito avrebbe descritto come «una donna che non fu mai una signora… ma fu lì lì per essere una regina…». Man Ray le chiese di posare per lui, ma inizialmente lei rifiutò dicendo che «i fotografi erano peggio dei pittori». Poi Kiki si innamorò di Man Ray. Andarono vivere insieme e nacquero tante opere celebri come il Violon d’Ingres dove l’artista sovrappose al fotogramma del corpo nudo della sua musa i segni a effe del violoncello. «Tutti giorni consumavamo due pasti completi, cosa a cui non era abituata avendo vissuto fino a quel momento di pane e tè. Aumentò di peso, ma non se ne curava…» ricorda sorridendo Man Ray. Kiki si mise anche a dipingere. Quando, nel nuovo studio in rue Campagne Première a Montparnasse il pittore Hans Richter e il regista Sergej Ejzensteijn andarono a trovare Man Ray, Kiki fece un ritratto al regista che poi lo acquistò.
Man Ray diventò presto un celebre fotografo ritrattista, non solo per i suoi amici pittori e scrittori. Un giorno venne convocato all’Hotel Ritz dall’Agha Khan che voleva essere fotografato. Anche il maharajah di Indore chiese un ritratto all’artista. Man Ray insegnò a scattare fotografie anche a Costantin Brancusi, il grande scultore che viveva come un eremita nel suo studio e voleva documentare fotograficamente le sue opere da solo. «Entrare nello studio di Brancusi era come penetrare in un altro mondo… Il bianco avvolgeva ogni cosa» racconta Man Ray.
L’artista fece altre scoperte in campo fotografico. Durante alcuni esperimenti per un ritratto al pittore cubista George Braque, scoprì la tecnica della «solarizzazione». Una linea scura che accentua i contorni delle forme come se fosse un disegno.
LA RISSA
Procedeva anche con le sperimentazioni nel cinema, ma si rifiutava di girare film tradizionali. «Doveva essere una cosa senza sforzo e piacevole, com’era ormai per me la pittura e la fotografia». Un giorno acquistò una bobina da trenta metri di pellicola e la tagliò in diverse strisce. Su alcune spruzzò sale e pepe, su altre gettò degli spilli a caso e puntine da disegno. Accese la luce come faceva per i «rayographs». Sviluppò la pellicola e incollò le strisce le une alle altre. Cosi nacque nel 1924 Le Retour à la Raison anticipatore dell’arte cinetica con le sue luci danzanti e le animazioni in negativo. Il film venne presentato in anteprima a Parigi da Tristan Tzara, ma durante la proiezione ci fu uno scontro tra dadaisti e passatisti. Finì in una rissa sedata a fatica dalla polizia. I dadaisti erano entusiasti del film, ma anche dell’esito della rissa.
Due anni dopo Man Ray realizzò Emal–Bakia. «Contrariamente all’impressione generale non ero affatto un purista dell’immagine in bianco e nero… sognavo un futuro del cinema a colori e in rilievo con effetto tridimensionale… Il film era puramente ottico, solo da guardare: non esisteva una storia né una sceneggiatura». Seguirono una dozzina di altri film sperimentali.
Fin dagli anni ’20 era diventato amico di Pablo Picasso. Si scambiarono ritratti: fotografici quelli di Man Ray e a china quelli di Picasso. Frequentavano il suo studio anche artisti estranei al Surrealismo come Wassily Kandinsky, Fernand Léger, Maurice de Vlaminck, Georges Rouault, Juan Gris.
Nel 1924, lo stesso anno di Le Retour à la Raison, nasce ufficialmente il movimento surrealista. Man Ray è il primo fotografo surrealista e anche il principale esponente che realizza film come forma d’arte. Diviene «il maestro delle luci» del movimento, un artista, come si direbbe oggi, multimediale.
Dopo la vittoria dei nazisti in Francia, Man Ray, che era di origine ebraica e anche esponente dell’«arte degenerata», decise di tornare in America. Dopo un viaggio avventuroso nella Francia occupata e nella Spagna franchista riuscì a imbarcarsi a Lisbona. Arrivato negli Stati Uniti, decise di risiedere a Los Angeles.
Per dieci anni rimarrà nella mecca del cinema, dove incontrerà la futura moglie Juliet Browner. «Aveva i lineamenti fauneschi e due occhi a mandorla che le davano un aspetto esotico… ballava leggera come una piuma: aveva studiato danza moderna con Martha Graham…»
A Los Angeles espose le opere che aveva lasciato venticinque anni prima a New York, ma le critiche furono ostili. Secondo l’artista, «New York aveva vent’anni di ritardo rispetto a Parigi in fatto d’arte…e la California un ritardo di vent’anni rispetto a New York».
Rispose negativamente a tutte le proposte di lavoro che i produttori di cinema gli fecero come direttore della fotografia, sceneggiatore e regista. Si negò anche alle riviste di moda e di spettacolo che volevano sfruttare la sua notorietà di fotografo. Fece invece molti ritratti fotografici ad attori e attrici. «Ava Gardner era una donna di un fascino eccezionale e a parer mio nessun film le ha mai reso giustizia. Come modella superava tutte le professioniste che avevo conosciuto…» racconta compiaciuto. Dopo dieci anni in California Man Ray pensò di spostarsi a New York, ma poi cambiò idea. «Provavo per Parigi una più forte attrazione: il luogo del delitto attira sempre il criminale…» . Nel 1951 ritornò in Europa con la moglie Juliet e ritrovò le sue tele che pensava fossero state perse durante la guerra o bruciate dai nazisti come arte degenerata.
L’artista decise di abbandonare quasi definitivamente la professione di fotografo. «Ma la fotografia come mezzo d’espressione continuava a interessarmi… e presi ad occuparmi di quella a colori.»
A Parigi, che non era stata ancora soppiantata da New York come capitale dell’arte, accadde di tutto. Subì attacchi iconoclasti e vandalici. Durante una mostra, degli studenti di Belle Arti grotteschi imitatori dei dadaisti, staccarono i quadri di Man Ray dalle pareti e li appoggiarono in terra. Uno di loro afferrò «il Metronomo e fuggì. Un altro portò via il «Boardwalk». L’artista li inseguì, ma inciampò e cadde. Quando si rialzò vide due ragazze che sollevano in alto la sua opera, mentre un ragazzo tirava fuori una pistola e iniziava a sparare su quel bersaglio.
Quando lo incontrai in quel febbraio del 1973, Man Ray era un artista unanimemente stimato, ma che tirava avanti a fatica. Dopo qualche mese arrivarono dei mercanti d’arte italiani che lo riscoprirono e gli fecero firmare riproduzioni di alcune sue famose opere dadaiste, come Cadeau, in migliaia di copie.
Ci salutammo come vecchi amici. Mentre uscivo dallo studio avevo percepito che la mia vita sarebbe cambiata per sempre in conseguenza di quell’incontro.
L’artista non ebbe il tempo di vedere ricollocata la sua geniale arte pittorica e fotografica nel posto che gli spettava della storia dell’arte. Sarebbe deceduto tre anni dopo, il 18 novembre 1976. La sua tomba al cimitero di Montparnasse è stata vandalizzata e profanata lo scorso anno. La stele è stata strappata e il ritratto del fotografo distrutto.
Sulla tomba l’artista aveva voluto che venisse scritto: «Unconcerned but not indifferent». Incurante, ma non indifferente.
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