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Malizia e fragilità nei caratteriali personaggi di William Trevor

Malizia e fragilità  nei caratteriali personaggi di William Trevor

Narratori irlandesi Una scelta di racconti da cinque antologie, da Guanda

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 aprile 2018

Nell’introduzione all’Oxford Book of Irish Short Stories del 1991, William Trevor sviluppava alcune delle intuizioni formulate decenni prima da Frank O’Connor in The Lonely Voice, individuando nel racconto la forma narrativa ideale per ritrarre le parabole umane e i paesaggi interiori di individui deboli, bizzarri e marginali. In quelle stesse pagine, descrive lo scenario antropologico e le pratiche culturali entro cui la short story si è progressivamente plasmata in Irlanda fino a divenire, nel corso del ventesimo secolo, il genere letterario nazionale.
Indagando lo scenario delineato da Trevor, la critica irlandese ha saputo mettere a fuoco alcune ipotesi suggestive sulle corrispondenze fra le proprietà formali del racconto e le tensioni di una società eternamente incompiuta e paradossalmente condannata alla destabilizzazione dall’accanimento con cui si ostina a inseguire la normalità.

ontrapposto alla solidità strutturale del romanzo ottocentesco – in cui si rispecchiano le rigidità dell’impianto classista inglese e la moralizzazione del sistema dei valori borghese – il racconto irlandese secondo Trevor deve semmai il proprio successo alla sfacciata eleganza populista con cui lo storytelling di derivazione gaelica ha continuato a esprimere le funzioni sociali della memoria e della sovversione, nutrendosi di uno spirito anarchico e alimentando energie refrattarie a ogni istituzionalizzazione.

Sono queste le valutazioni da cui non è illecito ricavare dichiarazioni di poetica tanto più interessanti in quanto elaborate da uno scrittore che oggi viene indicato fra i maestri del racconto. È pertanto un’ottima occasione quella fornita da Guanda, che ne pubblica i Racconti scelti (pp. 400, euro  20,00) presentandoli nella traduzione puntuale di Laura Pignatti, cimentata con testi tratti da ben cinque raccolte licenziate da Trevor fra il 1990 e il 2007: la selezione restituisce i connotati più raffinati di uno stile che Anne Enright ha felicemente definito come capace di intercettare malizia e fragilità negli spazi meno plausibili. Dell’intera operazione, delude soltanto l’introduzione di John Banville, incapace di sottrarsi alle generalizzazioni più grossolane in merito all’irlandesità e alla vena politica di Trevor.

A fronte della debolezza del paratesto, non pochi dei racconti sono di una tale qualità che ne basterebbe uno a legittimare la circolazione del volume. L’identità dei personaggi e la natura delle loro relazioni emergono induttivamente come somma cruda di gesti, azioni, comportamenti e tutt’al più moti d’animo che, intrecciandosi, allestiscono epifanie conclusive toccanti con cui si palesano componenti psicologiche fino a quel punto taciute dal narrato.

Al netto del pragmatismo talora meschino che sembra avvolgerne la quotidianità, i personaggi di Trevor finiscono per tradire tratti scaramantici e livorosi, lasciano trapelare posture eccentriche di matrice dickensiana e impasse beckettiane, per infine scoprirsi per lo più dotati di una tempra ostinata e non immune da risvolti patetici. L’apparente innocenza della trama sfuma così in esperienza mano a mano che i personaggi vengono messi in scena isolandone con disinvolto piglio naturalista pochi tratti netti ed esemplari.

Nel farlo Trevor alterna toni ironici a passaggi più contriti e densi di amarezza esistenziale, e arriva solo di rado a congedarsi dalla razionalità per assecondare un senso dell’assurdo latente e fatale. Contemporaneamente, lo sguardo distante ma simpatetico con cui segue il progredire dell’azione tiene a bada le interpretazioni sociali e politiche più schematiche e sollecita semmai considerazioni psicoanalitiche che portano a presagire il riverbero di esperienze infantili nei risvolti caratteriali e nelle vicende umane degli adulti.

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