Molti dei fenomeni più vivi e rilevanti della rinascita culturale di Milano nel dopoguerra affondano le radici negli ultimi anni del fascismo, nelle cui organizzazioni stava crescendo una fronda di giovani artisti e intellettuali insofferenti per l’appiattimento del pensiero imposto dalla propaganda e ansiosi di trovare forme nuove e libere di espressione. La storia del compositore e critico musicale Riccardo Malipiero, nato nel 1914 e scomparso nel 2003, offre uno spaccato esemplare di questa Milano in bilico fra tradizione e avanguardia. Egli infatti è il soggetto di una ricca e preziosa monografia curata da Maria Maddalena Novati e Marina Vaccarini (Riccardo Malipiero L’antidogmatico, die Schachtel/NoMus, pp. 183, euro 30,00), quinto volume di una serie dedicata ad alcune figure rappresentative, anche se rimaste in ombra, della musica italiana del Novecento.
Gianandrea Gavazzeni ricordava come la sera del 25 aprile 1945 era salito con Malipiero, già attivo nella Resistenza, sulla terrazza della sua casa a Milano, in piazza Fontana, per osservare la fine di quella giornata storica, mentre per le strade crepitavano ancora le armi dei partigiani e il cielo era illuminato dai razzi delle truppe alleate entrate da Porta Romana. Alla radio trasmettevano la Norma di Bellini, e Malipiero sbottò: «Melodramma, sempre melodramma, maledetto melodramma!». Era la reazione tipica di un giovane musicista che aveva manifestato fin dai tempi del Conservatorio un’insofferenza verso le forme più ingessate della tradizione, cosa che gli era costata nel 1938 la collaborazione a «Libro e moschetto», il periodico dei GUF, per un articolo sgradito al regime ma pubblicamente lodato dalla rivista «Corrente». Grazie a quella reprimenda, Malipiero si avvicina al gruppo di dissidenti guidato da Ernesto Treccani, dove trova amici che saranno compagni di strada e collaboratori per tutta la vita come il pittore Luigi Veronesi, il poeta Vittorio Sereni, gli architetti dello Studio BBPR.
Malipiero discendeva da un’antica famiglia musicale, che comprendeva non solo il famoso zio Gian Francesco, uno dei protagonisti della cosiddetta Generazione dell’Ottanta, ma anche il padre Riccardo, primo violoncello dell’orchestra del Teatro alla Scala. La musica per Malipiero era una sorta di placenta, ma non fu mai un hortus conclusus. L’arte, la letteratura, la filosofia sono state dimensioni costantemente presenti nella sua sfera creativa, come dimostrano le sue musiche ispirate al ciclo pittorico Accettura di Treccani, le molteplici collaborazioni con Veronesi, il suo originalissimo teatro musicale ispirato da scrittori come Dino Buzzati e soprattutto Massimo Bontempelli. Il rapporto con Veronesi, iniziato già nel 1938 con le 14 Variazioni per pianoforte, in dialogo con altrettante variazioni pittoriche dell’amico, è stato essenziale per definire un nuovo equilibrio tra forma e contenuto di tipo astratto e gestuale per entrambi gli artisti, trovando una piena espressione nella partitura di Balletto, scritto tra il 1939 e il 1940, nella quale danza, musica, poesia e scenografia si accordano su ritmi radicalmente diversi dalla tradizione rappresentativa e in sintonia con le tendenze più moderne dell’arte europea.
Altrettanto rilevante è il tentativo di svecchiare il teatro musicale attingendo i propri libretti da scrittori fantasiosi ed eccentrici come Bontempelli, del quale, in piena guerra, pesca un lavoro teatrale come Minnie la candida – che scardina tutte le gerarchie di genere – per scrivere la sua prima opera, allestita al Regio di Parma nel 1942 con la direzione di Gavazzeni. Ancor più singolare è la successiva opera di Malipiero, La donna è mobile, scritta nel 1954 ma rappresentata alla Piccola Scala di Milano solo nel ’57, sempre con la direzione di Gavazzeni e la regia di Franco Enriquez (al libro è allegato un cd con una rara registrazione del 1969 dell’opera concessa dalla Radiotelevisione svizzera). Era il tentativo di piegare i processi compositivi seriali alla teatralità del registro comico, prendendo spunto da un’altra commedia di Bontempelli in bilico tra futurismo e Pirandello, Nostra Dea, storia di una donna priva di personalità propria e costretta a cambiare carattere a seconda dei vestiti che indossa. Per questo originale esperimento di un’opera buffa dodecafonica, Malipiero si rivolse alla mediazione librettistica del giornalista e autore di teatro leggero Guglielmo Zucconi, conosciuto probabilmente nella redazione del quotidiano Il popolo, vicino alla Democrazia cristiana. Il nome di Malipiero, del resto, è indissolubilmente legato agli inizi della dodecafonia in Italia, in particolare al primo (e unico) Congresso internazionale di musica dodecafonica organizzato a Milano nel 1949 da lui e da altri musicisti schierati a favore del metodo di composizione teorizzato da Arnold Schönberg.
Il Congresso fu un fiasco da un punto di vista artistico, perché mise in luce le divergenze tra musicisti troppo lontani l’uno dall’altro (c’era anche un giovanissimo John Cage tra i partecipanti), ma rappresentò per molti giovani musicisti la prima occasione per conoscere una parte rilevante del pensiero musicale moderno. Il nome di Malipiero, purtroppo, è rimasto inchiodato a questo episodio, mettendo in ombra la sua produzione musicale, che meriterebbe di essere riconsiderata in maniera più attenta. Il libro di NoMus è un’occasione preziosa per riflettere a tutto tondo sulla figura di un musicista che ha saputo dialogare con il mondo culturale milanese del dopoguerra, con un’apertura all’innovazione condita da uno sguardo antiretorico, oltre che antidogmatico, capace di cogliere le opportunità fornite dallo sviluppo tecnico, come dimostra l’opera musicale televisiva Battono alla porta, scritta in collaborazione con Buzzati e trasmessa dalla Rai nel 1962. Per produrre il lavoro, Malipiero si avvicinò al mondo della sperimentazione elettroacustica, creando una serie di nastri nello Studio di Fonologia musicale della Rai di Milano, roccaforte italiana della cosiddetta musica elettronica. Anche in questo caso, com’era successo per il linguaggio dodecafonico, Malipiero rifiuta di trasformare la tecnica in un feticcio della modernità. La musica elettronica, così come la dodecafonia, non era un fine in sé, ma solo uno strumento per esprimere un mondo personale e libero da vincoli di casta.
La matrice antifascista e liberale non ha aiutato Malipiero a stare a galla in un mondo sempre più polarizzato, ma ha preservato certi legami antichi come quello con Ernesto Treccani, culminato nel progetto «audiovisivo» – una delle prime volte in cui il termine è usato nel significato attuale di lavoro concepito per la fruizione visiva e sonora ( altro esempio di apertura all’innovazione) – del citato Accettura, 1990. Il bosco di Accettura, nei pressi di Potenza, aveva attirato una lunga schiera di artisti e fotografi, da Henri Cartier Bresson a Fosco Maraini, Mario Dondero, Carlo Levi. Il fascino di Accettura soggiogò anche Treccani, che cominciò a progettare un «dipinto sonoro», una sorta di trasposizione dell’impatto emotivo in segno visivo attraverso una serie di tavole dipinte, giustamente riprodotte nel volume. Da lì è nata l’idea di proseguire il progetto in un formato elettronico, con la musica di Malipiero a integrare l’organismo pittorico segno/colore in una sorta di chironomia visiva. Questo è probabilmente l’ultimo grande progetto artistico di Riccardo Malipiero, che negli ultimi anni si ritira in una dimensione quasi esclusivamente lirica e vocale. Resta l’eredità di un uomo che ha speso la vita per difendere l’idea di un’arte democratica e libera, nella convinzione, forse illusoria, che la cultura possa cambiare il mondo. Probabilmente non è così, ma il libro di NoMus ci ricorda che Malipiero l’ha reso almeno un po’ migliore.