The Mandrake Project comincia a fondersi poco dopo la metà dell’ora che lo compone. L’ultima opera da solista del poliedrico Bruce Dickinson, la voce e l’anima innata degli Iron Maiden, sebbene sia giunto nella band inglese solo dal terzo album e abbia lasciato il posto al talentoso Blaze Bailey per due dischi da rivalutare. Una fusione e una dilatazione dei timbri e della ritmica che succedono ad una prima parte più «metallara», per fissare infine l’umore di quest’eclettico, sinistro e stupefacente lavoro in una malinconia dolorosa e indissolubile.

SI COMINCIA con il macabro arpeggio di Afterglow of Ragnarok, poi ribadito dalle chitarre distorte fino ai versi che preludiano il cantabile, impressionante ritornello, il primo di un album dove questi si rivelano sempre di un’avvincente forza melodica che esalta la voce sempre potente, oscura anche quando chiarissima di Bruce Dickinson. Si può decidere se vedere o no il senza dubbio bizzarro videoclip realizzato per questa canzone tuttavia, e non si comprende se in maniera involontaria o calcolata, queste immagini impongono una grottesca comicità al brano. Un album che trascende ogni genere per essere testimonianza pura dell’estro e del talento multiforme, quasi inquietante, della voce degli Iron Maiden

Segue la quasi «maideniana» Many Doors to Hell nella quale si evidenzia la lirica del cantante, i suoi testi dalla poetica romantica e ossianica, spesso mefistofelica, che distinguono non solo questo album ma altri dei suoi più riusciti lavori da solista, soprattutto The Chemical Wedding ispirato all’amato William Blake, la cui lapide (o un’imitazione di questa) si intravede nel video, questa volta davvero riuscito nella sua nebulosità horror alla Corman/Fisher, della cimiteriale Rain on the Graves. Possiede invece accenti che rimandano quasi al Badalamenti di Twin Peaks la seguente Resurrection Man. Comincia quindi con Fingers in the Wounds quel suddetto processo di dilatazione e fusione, ancora in una fase preliminare, profetica. C’è ancora tempo per le distorsioni e una ritmica più heavy metal con Mistress of Mercy, subito dopo negata dalla ballata Face in the Mirror ed ecco sopraggiungere le ultime due straordinarie, lunghe canzoni: Shadow of the Gods, che ci illude di una stralunata lentezza per poi sorprendere con un’accelerazione di puro Metal , è seguita dai dieci minuti sublimi, onirici e disperati di una vagamente «beethoveniana» almeno secondo il titolo, Sonata Immortal Beloved. The Mandrake Project trascende ogni genere per essere testimonianza pura dell’estro e del talento multiforme, quasi inquietante, di Bruce Dickinson.