Malinconie di un mare irragiungibile, racconti dalla Bolivia
«A un isolato dalla solitudine, a tarda sera, si è risvegliato un mondo»: quel mondo rivela le ambizioni di una generazione di autori boliviani, che scrivono oltrepassando le frontiere, forzando […]
«A un isolato dalla solitudine, a tarda sera, si è risvegliato un mondo»: quel mondo rivela le ambizioni di una generazione di autori boliviani, che scrivono oltrepassando le frontiere, forzando […]
«A un isolato dalla solitudine, a tarda sera, si è risvegliato un mondo»: quel mondo rivela le ambizioni di una generazione di autori boliviani, che scrivono oltrepassando le frontiere, forzando i confini di una letteratura votata esclusivamente all’impegno politico e alla denuncia – caratteristica fondamentale della produzione letteraria del Novecento in Bolivia – e attraverso il racconto confidenziale, quotidiano, aneddotico, di dolori e malinconie strazianti, di piccole rivincite, di nascosti piaceri, di coscienze intorpidite che subiscono il mondo, definiscono un nuovo manifesto letterario intimo e politico.
Scrittori come Baudoin, Colanzi, Rivero, Barrientos, Paz Soldán, ora presenti nell’illuminante antologia Calles Tredici racconti dalla Bolivia (a cura di Maria Cristina Secci, Gran Via, pp. 208, e 15,00) riescono a far sì che le istanze dell’indigenismo, del costumbrismo, della saggistica sociologica siano trasformate in un laboratorio di temi individuali e universali. Dal XX secolo con Arguedas, Medinaceli, Tamayo, Montenegro, si passa quindi a una nuova generazione di scrittori, quasi tutti nati tra gli anni settanta e ottanta.
Una allegoria fondamentale sembra restituire a pieno la condizione di isolamento, anche culturale e editoriale, dell’odierno scrittore boliviano: il mare «sottratto e agognato». «Al diavolo il mare. Abbiamo perso il mare con la guerra!» scrive Baudoin in «La Composizione del sale», riferendosi alla guerra del Chaco, nella quale Bolivia e Paraguay si contesero anche il controllo del fiume Paraguay che avrebbe consentito uno sbocco sull’oceano Atlantico.
L’acqua si configura come un elemento fondamentale: non solo il mare eternamente negato ai boliviani, ma anche le lacrime facili degli anziani, la pioggia, le derivazioni del latino plorare, il bagno nella vasca di casa con il sale che lo trasforma in un mare amniotico nel quale ascoltare la musica lontana di una conchiglia e ritrovare chi si è perduto. La città, i complessi intrecci familiari, i protagonisti giovani, la violenza, il dolore, la malattia, drammi intimi e universali, dominano lo scenario dei racconti presenti nell’antologia. E c’è la morte nelle sue pose più oscene e inaccettabili, la violenza cieca, appiccicosa di incoscienza: insetti che coprono nei sogni le azioni più abominevoli, ferite da taglio sull’addome di una adolescente, un feto di sei mesi avvolto nella carta di giornale sul bancone di un bar. E proprio lì dove sembra non esserci più via di scampo, si ritorna all’acqua sotto forma di pianto, inaccettabile e straziante: «Piangere non era possibile allora, piangere era come piantare alghe in un mare di sale ghiacciato che avrebbe finito per annegarli tutti».
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