Maliki scarica Obama: «Non me ne vado»
Iraq Uccise tre guardie di Teheran al confine. Secondo fonti Usa, l'Iran avrebbe inviato già droni e equipaggiamento militare
Iraq Uccise tre guardie di Teheran al confine. Secondo fonti Usa, l'Iran avrebbe inviato già droni e equipaggiamento militare
Maliki dice no. Non intende farsi da parte né coinvolgere le diverse fazioni politiche, espressione delle differenti etnie e religioni irachene, in un nuovo governo nazionale. Sembra così affondare prima di prendere il largo la proposta statunitense, presentata ai leader iracheni sunniti, sciiti e curdi dal segretario di Stato, John Kerry, lunedì a Baghdad.
Dopo l’affossamento dell’idea di un esecutivo di riconciliazione da parte del presidente della regione autonoma del Kurdistan Barzani – che alla richiesta di Washington aveva replicato minacciando un referendum per l’indipendenza curda – ora è il premier Maliki, figliocco della Casa Bianca, a issare altri ostacoli. Uno schiaffo in piena faccia per il presidente Obama: Kerry aveva annunciato due giorni fa la formazione di un nuovo governo entro la prossima settimana.
Le pressioni su Maliki perché lasciasse la poltrona di premier, appena riconquistata – per un soffio – alle elezioni di fine marzo – erano giunte da più parti, sia dalla comunità internazionale che dall’interno, in particolare dagli stessi leader sciiti. Maliki non ci sta e liquida la proposta come «un colpo di stato anti-costituzionale», accusando i leader sunniti di aver coordinato l’offensiva dall’Isil per riprendersi Baghdad.
Parole dure che aumentano le difficoltà in cui sta annaspando l’amministrazione statunitense, da considerare una delle principali responsabili dell’attuale caos in cui versa il paese, ormai diviso in tre, tra zone ancora sotto il controllo di Baghdad (la capitale e il sud), aree sotto il controllo curdo (Kurdistan e Kirkuk) e intere province in mano ai miliziani islamisti dell’ISil (nord ovest e nord est).
«Abbiamo disperatamente bisogno di prendere una posizione nazionale per sconfiggere il terrorismo – ha detto ieri il premier – Il pericolo che sta affrontando l’Iraq richiede che tutti i gruppi politici si riconcilino sulle basi della democrazia costituzionale. Resteremo fedeli al volere e alle scelte degli iracheni». V
ero è che Maliki la poltrona di premier non l’ha ancora ufficialmente riconquistata: a fine mese il parlamento appena rieletto dovrà incontrarsi per nominare un presidente che avrà 30 giorni di tempo per nominare il leader della coalizione di maggioranza chiamata a formare il governo. “Stato della Legge”, il partito di Maliki, ha ottenuto 92 seggi su 328 e sta cercando ancora fazioni che sostengano un suo eventuale esecutivo.
E mentre Washington freme e resta in attesa – rimandando ancora i bombardamenti con i droni chiesti da Baghdad – il conflitto che investe l’Iraq rischia di trasformarsi in una guerra regionale. Ieri tre guardie di frontiera iraniane hanno perso la vita, mentre pattugliavano il confine, in un attacco proveniente dal territorio iracheno. Fonti iraniane hanno parlato di un non meglio specificato «gruppo terrorista», senza fornire però altri dettagli.
Che possa trattarsi della migliore delle giustificazioni per intervenire in Iraq? Il presidente iraniano Rowhani aveva da subito parlato di un possibile coinvolgimento di Teheran nella soluzione della crisi irachena e promesso un intervento se Baghdad lo avesse richiesto. E, spingendosi oltre ogni previsione, Rowhani si era detto pronto ad una collaborazione diretta con il nemico di sempre, gli Stati uniti. Una proposta a cui Washington non ha mai risposto chiaramente, nel chiaro timore di aprire la strada alla definitiva trasformazione dell’Iraq in uno Stato satellite iraniano. Secondo indiscrezioni rilasciate alla stampa da funzionari statunitensi, Teheran si starebbe già muovendo: droni iraniani volerebbero già sopra l’Iraq, mentre da terra sarebbero entrate nel paese tonnellate di equipaggiamento militare a sostegno del governo di Baghdad.
Due giorni fa era toccato a Damasco, che con l’Iraq condivide le conseguenze dirette dell’avanzata degli islamisti dell’Isil che controllano ampie zone nel territorio orientale siriano: una serie di bombardamenti dell’aviazione di Bashar al-Assad hanno centrato la provincia sunnita di Anbar e in particolare la comunità irachena al confine, Al Qaim, occupata sabato dai qaedisti, fondamentale punto di snodo e passaggio di armi e miliziani al di qua e al di là della frontiera. L’attacco avrebbe provocato 57 vittime tra i civili e oltre 120 feriti. Intanto, al confine con la Giordania si mobilitava l’esercito di Amman, schierato da re Abdallah dopo la presa del valico di frontiera di Turaibil.
E mentre i 300 consiglieri militari statunitensi arrivavano in Iraq e iniziavano il loro lavoro a fianco dell’esercito iracheno a nord, l’unico a segnare punti era ancora l’Isil: i jihadisti hanno attaccato ieri la più importante base militare irachena (ribattezzata “Camp Anaconda” durante l’occupazione Usa) e assunto il controllo di alcuni piccoli pozzi di petrolio a est di Tikrit. A nord, nella provincia di Ninawa, si sono invece registrate esplosioni in due luoghi di preghiera sciiti: nessun morto. L’Isil non intende fermarsi: in un’intervista alla BBC un miliziano sunnita ha minacciato la presa di Baghdad: «Arriveremo alla capitale in meno di un mese».
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