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Malerba, destini satirici e morfologia dell’attore comico

Malerba, destini satirici e morfologia dell’attore comicoSecchio a forma di colonna greca antica nella commedia di Jacques Tati Playtime (Tempo di divertimento), 1967

Novecento italiano In Oscar Mondadori i racconti degli anni ’60 e ’70, nei quali Luigi Malerba attaccava le ipocrisie del perbenismo sociale; da Quodlibet l’inedito «Strategie del comico», una ricognizione per tipi

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 giugno 2018

Da ragazzo Luigi Bonardi, che faceva ridere la classe con continue battute, barzellette, facezie varie, fu rimproverato da una spazientita docente: «Sei una malerba, Bonardi!». Tanto bastò per sostituire quell’involontariamente comico «Bonardi» con il più lusinghiero «Malerba», e Luigi Malerba fu sempre fedele alla sua esigente vocazione: far ridere la vittima delle sue strategie punitive, distorcere il suo modo di parlare, le sue logiche argomentazioni, sorprenderla con gli esiti perversi della sua dabbenaggine.
In Italia gli anni sessanta incitarono alla trasgressione felice, telefonicamente guidata dal grande editore: scrivere «senza punteggiatura, senza trama, storie aperte, senza un finale, senza niente» finché non si creò l’urgente bisogno del grande romanzo alla Thomas Mann, magari un Moby Dick trasteverino (Lo scrittore teleguidato). Malerba non ha esitato a introdurre nei racconti di quegli anni, Sull’orlo del cratere (ora a cura di Gino Ruozzi, Oscar Mondadori, pp. 205, € 12,00), frasi in romanesco senza segni introduttivi: la vedova miliardaria «nun ce poteva crede, era emozionatissima … Non comprò nemmeno la pelliccia di visone che je stava fissa ne la capoccia» (Mille milioni). O la conversazione di Bomba e Brandin, aspiranti comparse a Cinecittà, «’Non c’è male, o un sancristoforo che non finisce mai’ disse Bomba ‘solo che a me ma fregato la guera’». Destini satirici si incrociano in una Roma che -– anche quando non è menzionata – è la stessa di Flaiano: «questa dolce Roma che mischia i destini più diversi in un giro materno e implacabile». E Malerba, complice, aggiunge: «Se arrivasse un marziano, dopo due giorni gli batterebbero le pacche sulle spalle». Satira tutta nostrana la sua, in apparenza distante da quella di Manganelli, che è satira metafisica, irridente, anarchica, deforme, «un riso tra olimpico e demente chiuso nel cuore della letteratura». Invece Malerba è sempre qui e ora, una malerba che cresce a deturpare e sconnettere le grandi mura di «una civiltà idiota per quanto sensata, demenziale per quanto è saggia, beata per quanto è incosciente» – come Pedullà descrive quella aggressione al conformismo ipocrita, alla pianificazione irresponsabile, alla corruzione nascosta sotto il perbenismo. Satira classica che procede per scatti nel suo percorso catabatico, rendendo più commovente la graduale, crudelissima amputazione, imposta dall’ipocrisia sociale al povero Barberis che aveva difeso fino all’ultimo la propria bellissima appendice anomala (La coda).
Con scatti graduali salgono verso l’esplosione gli altri due racconti del 1974, pubblicati sul «Mondo» insieme a La Coda, La risata e Il Satello. In questi ultimi due come nell’Organigramma, è l’entità astratta e tirannica del sistema a essere presa di mira, l’insensatezza della ragione burocratica che procede inarrestabile nelle sue ottuse strategie, sia che si tratti della Radio e Televisione Italiana o della IAPAC, impianti industriali, sempre in cerca di nuove macchine tuttofare che permettono licenziamenti in massa di personale, o il culto per la bellezza fluida e colorata dell’organigramma della TRAP S.p.A., nota ovunque per i suoi apparecchi di misurazione, che ha dislocato senza pietà i facchini al contabile, e le donne della pulizia ai rapporti con l’estero.
Augusto Frassineti, reso edotto da un’amara esperienza personale, aveva pubblicato già nel 1952 I misteri dei ministeri, affrontando con le armi del comico il grande male italiano: il polipo cieco della nostra burocrazia. Nell’accurata introduzione ai racconti Ruozzi ricorda che negli anni sessanta e settanta ci furono contributi storici e teorici basilari sul comico (Celati, Bachtin, Savinio, Arbasino …). La traduzione di Rabelais, a opera di Frassineti, tenne acceso l’interesse sulla stretta parentela tra comico e satira. Insieme a Manganelli – erano amici e complici – scrisse Teo o l’acceleratore della storia, e quest’ultimo vi introdusse quella temperatura innaturale, propria di Swift, che avrebbe reso il linguaggio «impratico, e anche mostruoso».
Finito di leggere l’ineffabile storia della pulce letteraria più famosa dopo quella di John Donne che, avvelenata o drogata, dopo una movimentata vita mondana annega nelle acque del Tirreno (Una pulce al Grand Hotel) viene da chiedersi: qual è la differenza tra comico e satira? Ne aveva già scritto Jean Paul nel suo tentativo di districare la questione (Il comico, l’umorismo e l’arguzia) con teutonica grazia: «… il comico si avvicina al solletico fisico, con quel suo tremito e quella sua oscillazione – come un dittongo e un doppio senso un po’ matto – tra dolore e piacere». E ci si prova anche Malerba, che sotto quel doppio registro aveva molto seminato nel vasto campo del riso. «La satira in forma di invettiva comica è offensiva, il comico in sé è più facilmente difensivo». E l’analisi procede per coppie contigue o antinomiche nel variegato, vasto campo semantico della comicità.
Strategie del comico (Quodlibet «Compagnia Extra», pp. 142, € 14,00) è il lascito postumo di uno scrittore che si è misurato con tutta la gamma di un genere antico e popolare che sfugge alla determinazione del gesto tragico, potente e coercitivo, a cui oppone l’assoluzione catartica del riso: il riso degli dèi che cancella la colpa degli amanti adulteri, Venere e Marte sorpresi nell’abbraccio. Ne poteva nascere una tragedia, ma invece fu l’origine della commedia. Scrittori come Malerba, che riescono a provocare l’effetto comico in un felice moto creativo, ambiscono anche a scoprirne le norme ambigue che lo regolano. Aristotele sembra che se ne astenne: quelle della tragedia bastano, bisogna solo cambiare di segno allo scioglimento del nodo. Nella Panoramica introduttiva, Malerba ricorda i teorici del comico più innovativi, dal romantico Jean Paul al surrealista Bréton . Con loro si misura alla pari, individuando le varie tipologie: il comico paralogico – in cui eccelle nei suoi racconti –, la retorica del riso, in cui si prova a definire una morfologia del riso, la satira deformante e spesso solipsista, la torta in faccia, un gesto politico, l’effetto dissonante del nonsense. Con la sua esperienza di uomo di cinema non dimentica il comico gestuale: il calcio indietro di Chaplin, la disarmonia fisica della coppia Stan Laurel e Oliver Hardy, il piccolo e il grosso, la muta maschera di Buster Keaton, i fratelli Marx e Ridolini, artefici del comico accelerato; le varianti strategiche dell’attore comico: satira, caricatura, arguzia, beffa, gag.
La barzelletta vanta un’origine antichissima. «La tradizione comica è apocrifa per definizione, non si sa da dove viene, non si sa dove è diretta, e ogni trascrizione la corrompe. La verità sta in chi la mette in scena, nella voce e nei gesti di chi la racconta». Ci basti sapere che il comico, come la tragedia, ha un esito catartico, ci libera, ci permette di sopravvivere. La sua «amabile follia» lo giustifica e giustifica anche noi, i ridenti che se sfidati dal riso altrui rischiamo di diventare i perdenti. C’è un vendicativo equilibrio in questa tragica altalena, e Malerba lo sapeva.

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