È uno degli episodi più raccontati della storia della Coppa del mondo, quindi del calcio tout court. È il Maracanazo. Per il popolo brasiliano un incubo collettivo dal quale solo le magie di Pelè sono riuscite a risvegliarlo. Per il piccolo Uruguay uno dei momenti più fulgidi della storia nazionale.

Quel «tragico» 16 luglio 1950 la Celeste umiliò nello stadio più grande del mondo, simbolo strabordante del futebol, i verdeoro che tali ancora non erano (allora vestivano di bianco, con orpelli blu) in una finale che tecnicamente non era una finale. Chiariamo subito. Quella fu la prima competizione a tenersi dopo la follia della Seconda Guerra. Di squadre fino in Brasile ne giunsero poche. Alcune, specificatamente India e Francia, si ritirarono pochi giorni prima dell’inizio del torneo. Alla fine si giocò in 13 e dopo il primo turno si stabilì di far disputare un girone unico con le prime quattro qualificate a sfidarsi tra loro. Due di queste le conosciamo già, le altre furono Svezia e Spagna. Non l’Inghilterra, che per la prima volta si calava nell’agone internazionale, uscendone umiliata dai dilettanti statunitensi. Nemmeno l’Italia, che però successivamente alla tragedia di Superga, occorsa solo un anno prima e che costò la vita ai campioni del grande Torino, serbava ben poche ambizioni di vincere il terzo mondiale di fila, dopo quelli inanellati ai tempi del fascismo.

Destino volle che l’ultima partita del round robin conclusivo fosse proprio il derby sudamericano. In precedenza il Brasile aveva demolito gli iberici (6-1) e gli scandinavi (7-1), mentre l’Uruguay aveva pareggiato 2-2 con i primi e vinto in rimonta e di un soffio (3-2) con i secondi.

Per i giornali non c’erano dubbi, la coppa era già in bacheca. In un tripudio di spavalderia carioca vergarono titoli che grondavano una gloria ancora di là da venire. «Il Brasile vincerà», era sicuro il Diario do Rio. «Questi sono i campioni del mondo» strillò O Mundo sopra una foto dell’undici di casa, riponendo nel cassetto ogni forma di scaramanzia. Per non essere da meno, la federazione aveva già fatto realizzare le medaglie commemorative per i suoi eroi e lo stesso Jules Rimet, presidente della Fifa nonché padre della competizione ed eponimo della coppa data in palio ai vincitori, si era preparato un discorsetto da appiccicare alla premiazione. Ovviamente in portoghese. Certo, il Brasile forte lo era per davvero. In attacco c’era il trio delle meraviglie: Jair, Zizinho e Ademir. Quest’ultimo aveva già segnato otto goal, compreso uno storico poker alla Svezia. Si badi bene, dall’altra parte non c’erano mica brocchi. Tutt’altro. L’Uruguay sarà anche un Paese piccolo, ma è sempre stata una fucina di campioni. All’epoca nel suo palmarès vantava otto titoli sudamericani, due Olimpiadi e soprattutto una vittoria in Coppa del mondo, la prima della storia, giocata a Montevideo nel 1930. In quella squadra giocava lo zio di Victor Andrade, tra gli undici che affrontò il Brasile insieme a Alcides Ghiggia, Juan Alberto Schiaffino (entrambi destinati a una carriera memorabile in Italia) e al capitano Obdulio Varela. Che prima della partita prese un po’ di copie de O Mundo e intimò ai compagni di urinarci sopra. Ma poi fece anche di più.

In realtà la contesa sembrò incanalarsi nella direzione auspicata dai brasiliani. Nella prima frazione di gioco i loro avversari combinarono poco, imbrigliati dalla tattica attendista dell’allenatore Juan Lopez. Le “vittime sacrificali” misero insieme qualche contropiede e una inutile litania di palle lunghe, nulla più. A inizio secondo tempo Friaça portò in vantaggio i padroni di casa sfruttando al meglio una papera del portiere della Celeste, Roque Maspoli. I boati di entusiasmo degli oltre 200mila presenti – le cifre ufficiali parlano di 173mila, ma non ci ha mai creduto nessuno – fecero tremare Rio de Janeiro. Ma ecco entrare in scena il Capitano con la C maiuscola. Per far placare le acque e permettere ai suoi compagni di metabolizzare il colpo, fermò il gioco per quasi cinque minuti protestando con l’arbitro inglese George Reader per un presunto fuorigioco (del tutto inesistente) sulla marcatura dei carioca. Finita la polemica, pare abbia pronunciato la storica frase «ragazzi, ora è tempo di vincere». Nulla di più calzante.

Gli uruguaiani si rimisero in sesto e provarono a fare quanto aveva chiesto Ghiggia nell’intervallo a Juan Lopez: «Dì a Julio Perez (centrocampista di manovra, ndr) di darmi la palla». Perez obbedì prontamente e il buon Alcides applicò lo schema più semplice del football: galoppata sulla fascia e passaggio al centro. La sfera arrivò a Schiaffino, un vero concentrato di classe ed eleganza. Per non smentirsi il futuro giocatore del Milan insaccò al volo. Era il 66mo. La paura avvolse i brasiliani, che con il pareggio erano ancora campioni, ma sembravano svuotati, spenti. Forse già sapevano che si stava per consumare la tragedia, la loro Hiroshima, come ebbe poi a commentare con enfasi francamente inopportuna lo scrittore brasiliano Nelson Rodrigues. A dieci minuti dalla fine Ghiggia si scagliò per l’ennesima volta verso l’area avversaria. Schiaffino aspettava al centro, come al solito, ma il buon Alcides non gli passò la palla. Preferì tirare. E la mise nei pochi centimetri lasciati liberi sul primo palo dal malcapitato Barbosa, poi divenuto l’ovvio capro espiatorio per quell’infausto match. Sul Maracanà calò un silenzio irreale, che segnò il principio di un lutto calcistico destinato a durare anni. Forse nemmeno i 100 uruguaiani presenti sugli spalti ebbero il coraggio di esultare, o solo di proferire parola. L’assalto finale di Ademir e compagni si dimostrò inutile. Il Brasile doveva “restituire” la coppa che pensava già sua. Poi fra il 1958 e il 1970, grazie ad alcune delle squadre più forti di sempre, vinse la Coppa Rimet per tre volte e, come da regolamento, se la tenne in maniera definitiva. Ma questa è un’altra storia. Nel 1950 il dramma nazionale per un popolo che forse non aveva ancora compreso la giusta importanza da dare al calcio, come invece sta succedendo attualmente, fu immenso. Si è sempre parlato di decine di suicidi, sebbene pare fossero solo voci, con poco o nulla di comprovato.

Gli “altri” quasi fecero fatica a godersi la vittoria, contornati da cotanta depressione. In Artisti, pazzi e criminali Osvaldo Soriano riportava la sua intervista a Varela, in cui il capitano narrava come la sera della finale fosse andato a bere in un bar dove tutti stavano piangendo», provando molta compassione per loro.

Certo, una volta riattraversato il Rio de la Plata quelli della Celeste festeggiarono, eccome. «Solo tre persone hanno zittito il Maracana: io, il Papa e Frank Sinatra», dichiarò qualche tempo dopo con un pizzico di sadismo Ghiggia, ormai proclamato eroe nazionale. Negli anni Cinquanta a Montevideo e dintorni i bimbi battezzati Alcides Edgardo si sprecarono.

L’idolo della tifoseria della Roma e, in qualità di oriundo, anche nazionale italiano, è l’unico superstite del Maracanazo. A 87 anni, ripresosi a fatica da un brutto indicente stradale, non si stanca mai di raccontare quando ammutolì un Paese intero.