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Maledetta guerra

Maledetta guerra

Intervista Lorenzo Del Boca parla del suo ultimo libro "Maledetta guerra. Le bugie, i misfatti, gli inganni che mandarono a morire i nostri nonni"

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 luglio 2015

«Altro che epica e eroismo, altro che medaglie al valore. Dalla voce di soldati traspare il dolore, la sofferenza, la costrizione di obbedire a ordini spesso insensati e la voglia di mandarli tutti a quel Paese». Lorenzo Del Boca, tre volte presidente dell’Ordine dei Giornalisti e già a capo della FNSI, non usa francobolli e ambasciatori per dire la sua sulla Grande Guerra, che con la ricorrenza del 100esimo anniversario sembra aver assunto i caratteri dell’agiografia. Negli ultimi mesi diverse pubblicazioni e riflessioni sembrano tralasciare non solo l’effettiva portata dei fatti storici ma anche il senso più profondo di una guerra che ci racconta ancora dell’incapacità di un Paese di fare i conti in maniera obiettiva con la propria storia. L’ultima fatica editoriale di Del Boca (Maledetta guerra. Le bugie, i misfatti, gli inganni che mandarono a morire i nostri nonni, Piemme, €17.50) mette i piedi nel piatto in questo posticcio galà della retorica nazionale in cui si inscrive un centenario per lo più ridotto nella vulgata comune ad un becero recupero – adattato in salsa leghista nell’emergenza immigrazione – del Non passa lo straniero (che racconta però della “battaglia del solstizio” sul fronte del Piave, nel giugno 1918).

Maledetta guerra” è un libro che stona rispetto alla direzione assunta dai testi usciti a ridosso di questo centenario …

«Gli storici passano gran parte del tempo a scopiazzarsi l’un l’altro, evitando accuratamente di cercare qualche verità in più perché hanno paura di trovarne di scomode. Io invece credo che questo sia l’unico modo per fare storia: offrire a tutti diverse chiavi di lettura, diverse interpretazioni. In occasione di ricorrenze, poi, la produzione per il grande pubblico raggiunge livelli davvero bassi. È successo per il 150esimo dell’unità d’Italia, succede oggi con il primo conflitto mondiale: un’agiografia stucchevole, insensata. Cosa c’è da festeggiare? 700mila morti e 1milione e mezzo di feriti?».

Nonostante le “ragioni da vendere”, perché hai dato alle stampe questo libro proprio nella settimana del centenario? Non è una contraddizione rispetto a quanto pensi delle ricorrenze e delle “pubblicazioni dovute”?

«Ma il punto è proprio questo. Io voglio utilizzarle queste contraddizioni, voglio inserirmi nelle monolitiche versioni di comodo, essere pecora nera e strappare dalle mani di chi dirige lo spettacolo il microfono delle verità. Parlare nello stesso palcoscenico, per parlare a tutti, far arrivare controcorrente un messaggio che, confinato nel circolo di mecenate, non produrrebbe nessun effetto di massa».

Dal tuo libro sembra trasparire una nota attuale, contemporanea, che si snoda lungo questi cento anni. A chi ti chiede come si può attualizzare il tema della prima guerra mondiale tu cosa rispondi?

«Guerre intestine tra vertici di potere amministrativi e militari, servizi deviati, mancanza di preparazione e assenza di strutture adeguate. Noi siamo un paese che non è in grado di affrontare il problema dei parcheggi e della mobilità, figuriamoci quello di vedere ripetersi errori che hanno ciclicamente segnato la nostra storia. La storia di una minoranza che ha preso sotto braccio una maggioranza silenziosa, al massimo balbuziente, conducendo un paese da una dimensione di neutralità ad una feroce tendenza interventista, è anche la storia dell’oggi per molti versi. Nei momenti di emergenza, più o meno artefatta, lo Stato si inventa meccanismi di speculazione, stringendo le maglie del potere, accentrando le funzioni ed esecutivizzando la legislazione. È una storia “all’italiana”, ed è anche una storia che parla dell’oggi».

Inediti, segreti, misfatti e testimonianze di chi c’era sul fronte di guerra. È questo il quid novi del tuo lavoro?

«Direi di si. La storia è una cronaca di due, dieci, cento anni fa. È fatta da piccoli episodi che illuminano un evento più grande. Trattare la storia dall’alto è come trattarla da lontano: è la prospettiva della riflessione che fa la differenza. I generali guardano la guerra da lontano, dai binocoli; scrivono migliaia di pagine sulle proprie ragioni, per giustificare le proprie scelte e testardaggini. Ma è il soldato a darti la dimensione più vera, a renderti l’idea della marcia e l’odore del sangue, costretto poi a fermare il racconto perché la carta è poca e deve dosarla per scrivere a chi lo aspetta a casa. È questa microstoria a fare la Storia. Se la si esclude a priori, si crea una storia parziale, artificiosa, bugiarda».

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