Malcolm «Arancia meccanica» McDowell, un ruolo per l’eternità
Intervista L'attore del celebre film di Kubrick tratto dal romanzo di Anthony Burgess ricorda il set del maestro statunitense e ripercorre la sua carriera in occasione dell'omaggio che gli rende il Torino Film Festival
Intervista L'attore del celebre film di Kubrick tratto dal romanzo di Anthony Burgess ricorda il set del maestro statunitense e ripercorre la sua carriera in occasione dell'omaggio che gli rende il Torino Film Festival
Completo bianco, protezione inguinale sporgente, ciglia immense sotto l’occhio destro, bombetta nera, Alex, il mitico protagonista di Arancia meccanica, è di nuovo qua, su grande schermo e dal vivo, nell’omaggio che il Torino Film Festival – 40sima edizione festeggiata dal manifesto e dalle opere di Ugo Nespolo – dedica al mezzo secolo del film di Stanley Kubrick e al suo magnetico interprete. Lui, nato alla periferia di Leeds, nello Yorkshire, 79 anni fa, oggi nonno, ha strappato per il cine-omaggio torinese, con la terza moglie Kelley Kuhr, qualche giornata alla sua attuale vita-vacanza divisa tra Ojai in California e il casolare di sua proprietà in Toscana, nel Chianti. Presente il 25 alla cerimonia d’apertura al Regio, in diretta su Radio3-Hollywood Party, all’insegna del rapporto di Beatles e Rolling Stones con il cinema, Malcolm McDowell riceverà poi dal Museo Nazionale del Cinema nell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana il premio Stella della Mole.
Sempre, sotto i capelli bianchissimi e la fronte che di anno in anno si sgrana, continua a saettare lo sguardo blu di Alex, arpione infallibile d’ogni spettatore di 50 anni fa: per molti, il ruolo che primeggia ancor oggi nella filmografia di Mc Dowell, dimenticando altre interpretazioni da manuale, come quella del giovane Travis in If… di Michael Anderson o di Evilenko nell’omonimo film di David Grieco, rivisto 4 anni fa nella personale che gli ha dedicato la Cinémathèque Française de Paris, dove ha tenuto una master class, mai vista più effervescente, dell’attore britannico condotta dal direttore della programmazione Jean-François Rauger.
Lo stile raggiunto da McDowell nella prima parte della sua carriera è una rara conquista, già perfetta: volto espressivo dominato da uno sguardo azzurro dalle mille sfumature, carisma di puma, agilità nei gesti e nel modo di camminare. «Felino-camaleonte», l’aveva definito la Cinémathèque. Dualismo che si esprime attraverso il corpo di rocker, secco e molle, di infinita energia, dell’attore. Vengono subito alla mente le scene danzate del suo cinema: la celebre sequenza violenta di Arancia meccanica sull’aria di Cantando sotto la pioggia o le coreografie deliranti di Caligula di Tinto Brass nel 1979. La sfida multipla delle sterminate interpretazioni, anche in ruoli minori, di McDowell nel seguito della carriera sarà di conservare questa forma d’equilibrio tra i suoi personaggi violenti e altri più candidi, alla frontiera tra bene e male, come sottolinea, nella testimonianza a parte di David Grieco che cura a Torino la sezione dedicata a McDowell, da lui diretto nel 2004 in Evilenko (Nastro d’argento europeo all’attore nel 2005).
Gli fa eco la presentazione alla Cinémathèque (che a Kubrick aveva dedicato una magnifica mostra, fonte del fondamentale numero monografico Les inRocks 2), dove si sottolinea come l’attore si sia spesso speso in questa gamma «rendendo simpatico ogni ruolo violento e, al contrario, inquietante l’eroe più innocente: una rara capacità di far amare, grazie alla precisione delle sue interpretazioni, serial killers mostruosi, estratti dalla realtà (Evilenko), che si moltiplicherà attraverso le decine di bad guys da lui interpretati su grande schermo a partire dagli anni 90».
Lui, calmo-esplosivo, come i suoi personaggi, dichiara subito : «Alex di Arancia meccanica non è cattivo. È solo il prodotto del suo ambiente, del modo in cui è stato cresciuto, della indifferenza assoluta dei genitori nei suoi confronti».
Un ruolo che le ha immediatamente dato fama internazionale. Com’è andata?
Devo confessare che, dopo l’uscita del film, per una buona decina d’anni non ne potevo proprio più: basta, basta! Ovunque andassi, ne ero perseguitato. Il mio nome era diventato Malcolm «Arancia meccanica» McDowell. Che orrore!
Eppure è stato la molla della sua vita di attore.
Certo. Mi sono incollato subito al genio tecnico di Kubrick, sapendo che grazie a lui sarei diventato venti volte migliore.
Com’è riuscito a incontrare Kubrick?
Grazie al mio agente, forse, non mi ricordo. Sa, all’epoca ero giovane. Non ero sicuro che Stanley Kubrick mi avrebbe preso. Mi aveva invitato a casa sua per il lunch. Aveva gli occhi neri. Molto amichevole. Abbiamo parlato di tutto e di niente. Mi ha detto che avrei dovuto leggere il libro di Anthony Burgess, da cui il film era tratto. «Lo leggi e torni qui», mi aveva detto. Lettura dura: libro stupendo, certo, un po’ pesante come tutti i libri stupendi. Ma, a un cento punto, mi son detto: è una storia straordinaria!
E dunque?
L’ho chiamato al telefono: «Mr Kubrick, è un libro superbo !». E lui mi ha offerto la parte… Silenzio. Poi ho azzardato :«Ah, va bene, ne riparliamo da me», senza sapere che Kubrick, completamente paranoico, non aveva mai abbandonato casa sua.
E poi i ciak. Tutto bene?
Ero terrorizzato all’idea di recitare per 5 mesi su un set di Kubrick, di condividere tutti i problemi, dai costumi al resto. Cinque mesi di riprese sono invece stati un periodo bellissimo per me: ho potuto conoscere meglio il regista, conoscere i suoi figli, la moglie, meravigliosa donna e grande pittrice.
Che idea ha avuto, e ha, di Kubrick?
È un grandissimo regista. Sa trasformare il cinema di genere in capolavoro. Commedia, film di guerra, fantascienza… . Con 2001: Odissea nello spazio ha portato la science fiction nel nuovo millennio: è forse questo il film che incarna al meglio il suo genio infantile.
Il rapporto del regista con i suoi interpreti?
Nessun consiglio: era uno dei più grandi registi al mondo e non dirigeva gli attori. Non gli è mai piaciuto avere a che fare con gli interpreti: ne era diffidente, sospettoso, specie se non conoscevano il testo. Forse per questo mi ha obbligato a leggermi di peso il libro di Anthony Burgess! Ma Kubrick amava le mie piccole improvvisazioni, come nella pazzesca scena iniziale, quando sollevo il bicchiere di latte. Era un modo per avvertire gli spettatori: Allacciatevi le cinture!
È stato lasciato solo nella preparazione del ruolo?
Non avevo alcuna idea di come interpretarlo. All’inizio, è stato un grosso problema: come rendere simpatica una canaglia? È stato Burgess, l’autore del libro, a darmi la chiave: l’amore per la musica classica, in particolare per Beethoven. Mi ha aiutato anche Lindsay Anderson, che con If… (vincitore nel ’69 della Palme d’or a Cannes) mi aveva fatto notare da Kubrick. Ad Anderson è bastato richiamarmi al piano di If… dove mostro quel sorriso enigmatico al limite della sfida: un sorriso fine, discreto, esaltato da una sguardo limpido e sicuro.
Forse nasce tutta da lì la sua carriera che, fosse dipeso da Ken Loach, non sarebbe mai iniziata (i suoi due minuti in «No Tears for Loy» nel ’67, li aveva tagliati al montaggio). E, dopo, come ha lavorato sul suo personaggio?
Nel libro, è un delinquente, che fa scelte terribili nella sua vita. Ma se si guarda il film sino alla fine, credo di aver apportato una gioia di vivere, un’infezione gioiosa. Quel che ho cercato di fare è di rendere il mio personaggio appassionato di quel che fa. Anche se quel che fa è male, il fatto che ne sia appassionato ve lo fa amare.
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