Il 12 marzo del 1938 Curzio Malaparte (1898-1956) acquista un terreno su una roccia di Punta Massullo a Capri. Suscitando la stupefazione incredula del proprietario, dichiara d’essere determinato a costruirsi una casa su quell’impervio, pressoché inaccessibile, isolato promontorio. E, certo, Malaparte non pone tempo in mezzo nel perseguire il suo proposito se, su quel sasso spugnoso che si protende a mare non lontano dai Faraglioni, nove giorni appresso, nella settimana del 21 marzo, prende avvio lo scavo nella pietra viva destinato ad accogliere la costruzione d’una cisterna.

Il successivo 12 settembre le autorità comunali concedono la licenza edilizia per l’erezione della casa. Si ricava una stradina lungo il fianco della roccia che si inerpica stretta e a precipizio. Su quell’incerto tratturo si trasportano i materiali. Alcuni giungono via mare, grazie ad un sommario attracco, poco più di uno sbarcatoio, ricavato da un anfratto dello scoglio. Il cantiere viene dunque approntato sollecitamente, affidato alle cure del capomastro caprese Adolfo Amitrano, e nel gennaio del 1939 si ha la posa della prima pietra, le pietre ad erigere muri ricavate, come sono, dall’esplosione della roccia sul sito. E i mattoni che, si racconta, furono portati a spalla passo dopo passo su quel periclitante sentiero che si è detto e che solo anni dopo, nel 1943, sarà consolidato e reso più stabile e sicuro.

Lavori, dunque, da attuarsi tutti in un luogo dalle caratteristiche tanto sfavorevoli e in condizioni così disagevoli, ed ogni giorno esposte alle variazioni del clima, delle intemperie e della forza del mare. Lavori, tuttavia, che non subiscono soste e si protraggono fino al giugno del 1940, quando il rustico dell’edificio è terminato.

Si procede alla posa della pavimentazione dell’ampia terrazza e della scalinata che ne consente l’accesso. Una scalinata strombata della stessa foggia della gradinata che Malaparte all’epoca del suo confino aveva visto salire al sagrato della chiesa dell’Annunziata a Lipari, gli scalini, ristretti i primi e poi sempre più larghi, fino a raggiungere qui il bordo di quel gran solarium a mattoni che si estende per l’intera area di copertura dell’edificio, una piazza che si apre senza parapetti o ringhiere di salvaguardia agli orli, stesa sul mare e circondata dalle alte scogliere a precipizio.

Nel 1940 Malaparte pubblica un articolo, Città come me, ove fantastica di sé medesimo costruttore d’una città ideale. È la trasposizione letteraria nella quale enfatizza a misura di città il progetto da lui perseguito e condotto a compimento realizzando la casa di Capri: «costruirmela tutta con le mie mani – scrive – pietra su pietra, mattone su mattone (…) mi farei architetto, muratore, manovale, falegname, stuccatore, tutti i mestieri farei, perché fosse mia, proprio mia, dalle cantine ai tetti, mia come la vorrei (…) che mi somigliasse, che fosse il mio ritratto e insieme la mia biografia».

Si comprende allora come Malaparte abbia fatto intestare la carta da lettere, in grossi caratteri neri, «CASA COME ME», come ricorda Bruce Chatwin in uno degli scritti raccolti in Anatomia dell’irrequietezza, dove, a proposito della casa di Capo Massullo, si chiede: «Una nave ‘omerica’ finita in secca? Un moderno altare a Poseidone? Una casa del futuro – o del passato preistorico? Una casa surrealista? Una casa fascista? O un rifugio ‘tiberiano’ da un mondo impazzito? È la casa del dandy e del burlone professionale. L’‘Arcitaliano’, come lo chiamavano gli amici – o del malinconico romantico tedesco celato sotto la maschera? La ‘pura’ casa di un asceta? O l’inquieto teatro privato di un insaziabile Casanova?».

Riportando il desiderio espresso da Malaparte a Adalberto Libera quando chiese all’architetto di stendere un primo progetto (poi ampiamente dallo scrittore disatteso, rielaborato e mutato tanto che Libera non annovera la casa tra le sue opere), Chatwin ricorda come Malaparte si volesse costruire «una casa come me, triste, dura, severa, come sperava di essere egli stesso». «E davvero» aggiunge Chatwin «fino all’ultimo dettaglio piccolo borghese, la casa è una biografia del suo proprietario».