Malamud, una lunghezza idonea alla fugacità dell’esistenza
Scrittori americani Scritti tra il 1940 e il 1985, i cinquantacinque racconti dell'autore di Brooklyn, raccolti da minimumfax e introdotti da Emanuele Trevi
Scrittori americani Scritti tra il 1940 e il 1985, i cinquantacinque racconti dell'autore di Brooklyn, raccolti da minimumfax e introdotti da Emanuele Trevi
Benché il nome di Bernard Malamud sia legato a romanzi di straordinaria potenza evocativa – da Il giovane di bottega a L’uomo di Kiev (vincitore sia del Pulitzer sia del National Book Award) a Le vite di Dubin – la sua prosa breve ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza, rivelandosi forse la forma narrativa a lui più congeniale. Grazie a minimum fax, che in poco più di un decennio ha intrapreso la riedizione dell’intera sua opera, il lettore italiano può di nuovo apprezzare, in ordine di stesura, tutti i cinquantacinque i racconti scritti tra il 1940 e il 1985, raccolti in un cofanetto e impreziositi da una acuta prefazione di Emanuele Trevi, che ripercorre la carriera dello scrittore fermandosi in particolare sulle storie ambientate in Italia: i due volumi di Tutti i racconti (traduzioni di Giovanni Gabellini, Igor Legati, Vincenzo Mantovani, Donata Migone e Ida Omboni, pp. 1.004, € 30,00) si confermano come una delle vette più alte raggiunte dalla short story americana nella seconda metà del Novecento.
Una forma per il respiro
Malamud esordì negli anni Quaranta pubblicando su riviste i racconti che scriveva nei ritagli di tempo, prima mentre lavorava come impiegato a Washington, poi quando insegnava grammatica alla Oregon State University. Robert Giroux, direttore editoriale della Harcourt, Brace & Co., rimase a tal punto colpito da alcuni di essi che contattò subito l’autore comunicandogli la sua intenzione di pubblicarne una raccolta: Il barile magico uscì nel 1958 e valse a Malamud il primo National Book Award, strappandogli la parola «miracolo»: non solo era inusuale che il premio venisse assegnato a un volume di racconti, ma tanto più lo appare, con il senno di poi, considerando che quell’anno tra i finalisti c’era Nabokov con Lolita. Nell’intervallo tra un libro e l’altro Malamud continuò a scrivere racconti, arrivando alla considerazione per cui se «il romanzo è un lungo lavoro di apnea», il racconto offre la possibilità di «respirare»: poche, sferzanti parole riescono nel compito di «rappresentare la fugacità dell’esistenza umana in tutta la sua lunghezza», mostrando «quanto siano vulnerabili le vite degli uomini». La forma-racconto, inoltre, serve allo scrittore per affinare la propria autodisciplina, costringendolo in una manciata di pagine a «dire tutto quello che va detto e dirlo in fretta, come se due persone si incontrassero un attimo al ristorante, o alla stazione, e uno avesse appena il tempo di dire all’altro che sono entrambi umani».
Mantenere la propria umanità in un mondo sempre più insensibile: questa è in ultima analisi la lezione della narrativa di Malamud, nonché il punto d’arrivo di molti suoi personaggi, che fra dilemmi emotivi, mortificazioni e sacrifici arrivano a provare empatia per l’«altro»: il mendicante importuno, l’inquilino moroso, persino il commerciante rivale deciso a mandarti in rovina. Spesso, tuttavia, la redenzione arriva troppo tardi per cambiare le cose, o accade che le migliori intenzioni vengano fraintese: quando il protagonista di La prigione tenta di salvare la bambina sorpresa a rubare nel suo negozio, non solo si ritrova contro la moglie, che non comprende il suo gesto, ma viene anche sconfessato dalla madre della ladruncola.
Nei casi peggiori le barriere create dai pregiudizi e dalla sofferenza si rivelano impossibili da abbattere: l’uccello ebreo che nell’omonimo racconto si rifugia in casa di un rappresentante di surgelati per sfuggire agli antisemiti viene maltrattato e scacciato dal suo ospite, ebreo come lui, mentre in Mio figlio l’assassino – forse il racconto più bello e straziante – padre e figlio vivono separati da una dolorosa incomunicabilità, trasposta stilisticamente nell’alternanza sincopata di voci e pensieri dei due protagonisti che intensifica la sensazione di angoscia e di incomprensione.
Dai toni dimessi degli incipit spesso il lettore giunge quasi di soppiatto, e senza ausilio di complicati artifici retorici, a un’epifania capace di trasfigurare ambienti e personaggi familiari fino a renderli universali. Le storie più riuscite possiedono l’incisività delle parabole senza tempo, e per questo continuano a esercitare il loro fascino ben oltre l’ultima riga. Anche nei racconti più tetri, i personaggi di Malamud lasciano trasparire il loro ostinato attaccamento alla vita, sorretti da quella onestà morale e intellettuale che sembra ormai l’unico, se non l’ultimo, valore in grado di dare senso all’interminabile catena di umiliazioni e sconfitte.
Dalla ironia Yiddish
La drammaticità delle situazioni narrate è attenuata da un’ironia tagliente, in parte derivata dalla cultura yiddish, che della battuta di spirito si arma per rintuzzare le offese e i soprusi senza mai cedere alla disperazione, e in parte attinta dalla tradizione letteraria americana. Del resto, Malamud non era affatto l’uomo tetro e deprimente descritto da Philip Roth nel famoso «Ritratto» pubblicato alla sua morte; accanto alla disciplina scrupolosa e alla composta riservatezza di cui andava fiero, convivevano in lui una spiccata autoironia e un senso dell’umorismo che innervano la sua narrativa. Come tutti i clown tristi, sapeva benissimo che «non c’è niente di più comico dell’infelicità», ed è per questo che anche i suoi racconti più amari hanno un retrogusto beckettiano.
Nella seconda parte della sua carriera Malamud continuò a riflettere sui temi tradizionali dell’ebraismo – la sofferenza, l’espiazione, l’esilio – rielaborandoli alla luce delle sperimentazioni postmoderne. In racconti come Il mio colore preferito è il nero o Il profugo tedesco non esita ad affrontare spinose questioni politiche e sociali come la convivenza tra ebrei e afroamericani, il trauma dell’immigrazione e le persecuzioni naziste. Anche le tecniche narrative impiegate vanno a formare un ampio ventaglio: dal realismo di Uomo nel cassetto ai toni surreali de La lettera, dal discorso indiretto libero di quel capolavoro che è Cavallo parlante al pastiche postmoderno del frastornante Ritratto dell’artista. I racconti stabiliscono fra loro una fitta rete di assonanze, incroci e rimandi in cui ogni circostanza si rivela in quanto variazione della precedente, a sua volta anticipando e rielaborando spunti della successiva: oggetti simili riappaiono con funzioni diverse, mentre i personaggi sembrano cambiarsi d’abito tra un racconto e l’altro per tornare in scena in ruoli differenti, mantenendo tuttavia una traccia della performance appena terminata.
Un viaggio iniziatico
Leggere uno in fila all’altro i racconti di Malamud equivale a intraprendere un viaggio iniziatico nella «complessa e misteriosa natura dell’uomo»; secondo l’autore americano, infatti, «raccontare storie è un modo per trovare, passo dopo passo, il significato della vita». Quando il negoziante in bancarotta di L’alimentari rinfaccia al rappresentante che gli rifornisce il negozio di non essere «un esperto in rapporti umani», questi gli risponde: «Si dà il caso che sia un essere umano». Niente affatto scontata, questa lezione implicita aiuta a ricordarci la nostra più elementare verità.
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