«La verità non sembra mai vera», annotò Georges Simenon in uno scritto dove ragionava sul giallo. Ne ebbe prova quando varcò, come giornalista, il portone della sede della polizia parigina al numero 36 di Quai des Orfèvres, indirizzo che evoca istantaneamente nei lettori la silhouette baffuta del commissario Maigret. Da quelle visite al Quai des Orfèvres scaturirono diversi articoli d’occasione scritti negli anni Trenta e raccolti in Dietro le quinte della polizia (Adelphi, 2022, pp. 281, euro 16). La modernità della polizia è l’aspetto che più colpisce Simenon: dalle tecniche della scientifica, all’organizzazione dei dati all’abbigliamento dei poliziotti. «I vignettisti continuano a rappresentare questi ispettori con un paio di baffoni impomatati e una bombetta. Be’, si sbagliano. Alla giudiziaria c’è ancora qualcuno che porta i baffi, ma se ne vedono sempre di meno e ormai nessuno usa la cera. Quanto alla bombetta, il più delle volte è stata rimpiazzata da un cappello floscio».

«LA VERA MONTMARTRE»
Niente Poirot che galleggia nell’alta società con il suo savoir faire lezioso: Simenon offre il meglio di sé quando descrive con pochi tratti un ambiente, una strada, una situazione sociale. Con rapide pennellate impressioniste lo scrittore ci precipita in qualche arrondissement di periferia o ci fa penetrare l’anima nera della borghesia. «La vera Montmartre è questa, non quella dei locali notturni e delle poche centinaia di papponi e mignotte di cui si parla tanto; è la Montmartre dei borghesi, degli impiegati, delle famiglie, ma anche la Montmartre dei vecchietti e delle vecchiette che non hanno più niente, che si fanno investire dal tram perché non ci vedono bene, o che vengono stroncati dal freddo, o che fingono di avere un mancamento per strada per ottenere un posto all’ospizio, e che, quando non ci riescono, finiscono, una mattina, per gettarsi dalla finestra». In fin dei conti l’essenza del noir può essere anche questa: far arrivare al lettore un mood, una sorta di musica malinconica che vibra sulla Senna e si disperde tra i tetti parigini.
Simenon ha scritto regole tutte sue per il romanzo giallo. Ha iniziato il ciclo del commissario Maigret (con Pietro il Lettone, primo romanzo del 1929 con il commissario protagonista, pubblicato due anni più tardi in Francia) rigettando il modello inglese e viaggiando in parallelo – pur mantenendo la propria specificità – alla scuola dei duri americani. La Parigi della malavita e dell’abiezione, i brumosi paesi del nord della Francia erano i luoghi principali (ma non esclusivi) dove Maigret indagava con il suo non metodo. Né pistola né deduzione: l’ispettore procedeva attraverso la comprensione «esistenziale» del delitto, una condizione che si raggiunge parlando con i sospetti, interrogando i testimoni. Un modus operandi largamente basato sull’improvvisazione; Simenon confermò sempre che scrivendo non sapeva dove le storie lo avrebbero condotto e che si inoltrava come in trance nella trama. Non si prova nessuna sorpresa nello scoprire che Simenon amava il jazz; lo ascoltava e lo aveva ballato in gioventù, pare anche con una certa perizia. Il jazz entra «naturalmente» a far parte delle «atmosfere» di molti suoi libri. Se il jazz si è naturalizzato a Parigi dipende in prima battuta dall’entusiasmo con il quale è stato accolto e amato dai francesi e, un po’ anche dai tanti musicisti afroamericani espatriati che negli anni hanno messo radici sulle sponde della Senna, come avevano fatto in precedenza gli scrittori della generazione perduta (per dare un’idea ecco qualche nome dei parigini d’adozione, ma è una lista ampiamente incompleta: Bud Powell, Kenny Clarke, Johnny Griffin, Sidney Bechet, Don Byas, Bill Coleman, Lucky Thompson, Art Ensemble of Chicago). Il jazz fa risuonare la Ville Lumière. Il giallo simenoniano contribuisce a questo blues parisienne: i suoi romanzi abbondano in quantità di night dove bel mondo e malavita si incontrano al suono delle jazz band.

QUALCHE ESEMPIO
Vediamo qualche esempio. In Una testa in gioco (1931) ci troviamo all’inizio della produzione dedicata a Maigret e Simenon descrive Montparnasse: «I grandi caffè erano chiusi, ma c’era ancora qualche locale notturno aperto e lui si è fermato davanti a uno di questi… Si sentivano le note di un brano jazz…». In Félicie (1944) Maigret entra nel club Pélican, dove il jazz filtra attraverso le tende di velluto che mascherano l’ingresso della sala. Decenni dopo – qui siamo vicini all’epilogo della serie – in Maigret al Night Club (1969), la scena del delitto è il parigino Picratt’s, covo attorno al quale si muove una girandola di personaggi ambigui, tra i quali la spogliarellista Tania, all’occorrenza pianista e cantante jazz. Il commissario si muove negli ambienti notturni con la sicurezza del veterano e spesso ordina l’immancabile birra con un panino, ingredienti fedeli, con la pipa, di tante indagini. La musica è usata da Simenon come un ingrediente stereotipato, sempre uguale a se stesso negli anni; ma un certo grado di ripetizione fa parte del fascino di cicli lunghi decenni come quello di Maigret.
Nell’ottobre del 1945 Simenon sbarca in America ansioso di lasciarsi alle spalle gli anni di guerra e le accuse di collaborazionismo (il fratello aveva ricevuto una condanna a morte per lo stesso reato). Con la moglie e il figlio si stabilisce in Canada, ma gli Stati Uniti rappresentano la meta finale, con la segreta speranza di sfondare a Hollywood. Parte alla volta degli Usa al volante di una Chevrolet, per un viaggio di cinquemila chilometri, dal Maine al Golfo del Messico. Questo soggiorno ispira una serie di articoli per i lettori del giornale France-Soir oggi raccolti da Adelphi nel volume L’America in automobile (2023, pp. 185, euro 16). Lo scrittore vivrà negli States per una decina d’anni prima di fare improvvisamente ritorno in Europa ma questi primi resoconti rientrano a pieno diritto nella diaristica di viaggio degli europei in America, le cui radici nobili risalgono a Tocqueville. Alcuni racconti di ambientazione americana come Luci nella notte (1953), storia che ruota attorno a un evaso da Sing Sing, posizionano sullo sfondo gli ingredienti tipici del noir americano; come scrive nella postfazione del volume la curatrice Ena Marchi: «Il neon delle insegne dei bar, il whisky, l’asfalto, la musica jazz in sottofondo, la minaccia incombente della violenza».

IL VIAGGIO
Torniamo al viaggio americano. Tra le osservazioni sulla vita quotidiana e la diversità con il vecchio continente colpisce la presenza costante, quasi ossessiva della radio. La si sente in macchina, nei bar di passaggio, in casa. «Ho sentito annunciare alla radio delle canzoni dei tempi andati, old time. Alla lettera: i vecchi tempi. Mi aspettavo pezzi dell’epoca della guerra di Secessione, se non addirittura della guerra di Indipendenza. Ebbene per una mezz’ora ci hanno fatto ascoltare Ol’ Man River, A Beautiful Baby e altri pezzi jazz del periodo dei ballets nègres, quindi più o meno del 1926».
Improvvisamente Simenon che su quei pezzi ha ballato il charleston si sente più vecchio del dovuto. Il jazz in questo passaggio viene utilizzato da Simenon per raccontare la velocità dell’America e il suo rapporto con un passato che corre via più rapidamente qui, in un paese che guarda costantemente al futuro (almeno in questi anni). Il giro in automobile da nord a sud permette allo scrittore di maturare alcune certezze: «Chi arriva, dopo essere passato davanti alla Statua della Libertà, può in un certo senso scegliere l’America che preferisce. Ed è quasi sicuro che la troverà. Che siano i sobborghi popolati di gangster, le cittadine puritane, i palazzi dei miliardari, le caffetterie in cui si mangia tutti allineati davanti a un bancone luccicante, che siano le piantagioni del Sud con i loro negri indolenti, le riserve indiane o gli immensi laghi, la frenesia notturna di Broadway o quella diurna di Wall Street, c’è tutto…». In questa America-mondo dove trionfa il senso di libertà la vita notturna è ancora e sempre punteggiata di jazz, come nella cara vecchia Francia.