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Maicol&Mirco, una macchia rossa sulla prima pagina

Maicol&Mirco, una macchia rossa sulla prima pagina

Intervista La prima pagina del «manifesto» accoglierà da martedì uno specchio nel quale riconoscersi: una finestra di piccole dimensioni, uno spazio di grande importanza: un nuovo vignettista

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 settembre 2023

Spopola sulle piattaforme social, riempie le sale quando presenta le sue opere, salta da un progetto all’altro, è a suo agio tra le pagine di un libro come sulle pareti di un museo. Questa non è solo un’intervista. È una conversazione per conoscerci meglio. Perché dal prossimo martedì sulla prima pagina del manifesto troverete un’inconfondibile macchia rossa: è lo spazio della creazione di Maicol&Mirco, fumettista italiano tra i più amati e seguiti della sua generazione (e non solo). Uno spazio limitato per un’immaginazione che non sa stare dentro i bordi.

Iniziamo dalla fine. Di recente un noto editorialista, in una trasmissione tv, ha definito il «manifesto» «onorevole reliquia della storia». Come ti senti a entrare a far parte di una reliquia, seppur onorevole?
I miei personaggi non credono nel tempo, la penso come loro. Tutto è attuale. Il futuro come il passato. Credere di poter neutralizzare qualcosa, storicizzandolo, è un trucco da principianti.

L’angoscia esistenziale che permea le tue vignette – la vita, la morte, l’amore e l’assenza dell’amore, dio, l’infelicità e la frustrazione come condizioni strutturali dell’essere vivi – potrebbe sembrare dettata da una spinta individualista alla sopravvivenza. Ma è profondamente collettiva. Il personale, dopotutto, è politico. O no?
Assolutamente. Se vogliamo raccontare l’universale è necessario partire dal particolare. Un mio personaggio, molto più saggio di me, recita: «Le cose grandi si misurano con le cose piccole». La penso come lui. E poi tutto ha una doppia lettura. Le terribili ansie di un padre sono anche il meraviglioso amore verso un figlio. Senza le ombre questo mondo sarebbe così accecante da rendersi illeggibile.

A chi parla il tuo lavoro? Io mi ci ritrovo molto e mi dico che uno dei motivi è la solita vecchia piatta definizione che diamo di noi stessi, ovvero l’appartenenza a una specifica generazione, quella dei 30-40enni, che ha visto peggiorare sensibilmente il proprio livello di vita ed è sottoposta a una costante umiliazione socio-economica, lavorativa, anche di immagine perché saremo sempre additati come quelli che, in fondo in fondo, non hanno voglia di lavorare né di contribuire al progresso della patria procreando il futuro della nazione. Persone che nel tuo lavoro si riconoscono e pensano «dai, allora, non sono solo io».
Parla a tutti, non parlando nello specifico di nessuno. Assomiglia a tutti, non assomigliando davvero a nessuno. La mia narrazione, piena di vuoti, sia grafici sia narrativi, permette al lettore di sprofondarci dentro. Tutto ciò che è evocativo racconta meglio di ciò che è specifico. Gli Scarabocchi sono specchi deformanti, anche allungati o accorciati ci si riconosce sempre dentro.

Molti ti seguono proprio per gli Scarabocchi, sfondo rosso, poche parole e un’ironia nera (ma anche tanta cinica poesia), che fulmina in un istante. Che ti fai una risata, poi realizzi e ci resti malissimo. Come nascono gli Scarabocchi?
Chi quando li legge ride, si sente in colpa per non averci pianto. Chi quando li legge piange, si sente in colpa per non averci riso. Gli Scarabocchi nascono così, da una risata colpevole, una risata possibile.

Il primo libro di 16 pagine degli Scarabocchi è andato a ruba. In un’intervista di qualche anno fa a Rolling Stones hai detto di aver provato un leggere fastidio. Cito: «È come se uno impara a dipingere come Picasso e poi fa un quadro alla Caravaggio e ne vende un miliardo». Ci spieghi?
Di fatto quel libretto, con quel segno e quel successo improvviso, svalutava e derideva tutta la nostra precedente ricerca grafica e stilistica precedente. Di colpo i nostri vecchi personaggi ci sembravano così infantili e limitati. Questo mi innervosì al punto da cercare di seppellire e dimenticare per anni i nostri Scarabocchi. Ma ero giovane e credevo di poter avere voce in capitolo nei miei fumetti. Che potessi decidere cosa e come scrivere. Quale segno usare. Invece, come ho scoperto nel corso negli anni, a indicare la strada sono sempre e solo i propri personaggi. Sempre un nostro personaggio, saggissimo, recita «Possiamo scegliere cosa leggere ma non cosa scrivere».

Una delle vostre opere più belle è «Il papà di dio», una graphic novel che segue un percorso, ha un inizio e una fine e stimola innumerevoli suggestioni. Come la perfezione che si cela dietro l’imperfezione o il ruolo che ha il “male” nella spinta a creare, a immaginare e quindi ad agire al di là di dio, ad agire il libero arbitrio. Il disagio (individuale e collettivo) come motore della storia?
La storia del complicato rapporto di Dio con suo padre, un Dio entusiasta della creazione, che non ha tempo di perfezionare i suoi studi da DIO PERFETTO e si avventa sulla creazione con l’impeto giovanile e il fuoco dell’artista. Situazione che mette in grave disagio il proprio padre, lui sì Dio perfetto che ha portato a termine gli studi da Dio. Nel marasma della storia poi ci sono anche lo zio di Dio e il miglior amico di Dio: Satana. Un libro nel quale abbiamo potuto mettere a ferro e fuoco la nostra idea di fumetto. Con un’idea del tempo tutta nostra, dove si possano vivere le pause e i tempi lunghi. In questo nostro librone, il disagio è davvero il motore della storia. Il disagio di non essere capiti dal proprio genitore, fosse anch’egli Dio in persona. Il disagio di non potersi gettare a capofitto nelle proprie passioni. Il disagio di dover nascondere il proprio migliore amico, anche fosse Satana in persona. Le storie belle hanno i guai dentro. Le storie divine i guai divini.

Fai però anche un sacco di altre cose. Libri per l’infanzia, iniziative per il Mibact, docenza all’Accademia di Belle Arti, pure la promozione turistica per Grottammare. Che artista sei, come ti definisci se ti definisci – operazione non sempre necessaria né risolutiva?
Sono il frutto dei miei personaggi. Sono versatili e multiformi, tocca a me stargli dietro. Sai, a parte me non hanno nessuno.

Hai partecipato e partecipi a molte iniziative collettive, dalle fanzine al gruppo dei Super Amici fino a volumi che ospitano decine di artisti, penso a Fortezza Europa o Resistenze. Fare «gruppo» per raccontare una storia e per agire la partecipazione politica sotto altra forma?
Il piacere della solitudine non ci ha mai impedito di partecipare alle feste. Se ben fatte. Quelle sopra sono tutte feste riuscite, in cui i nostri personaggi sono riusciti addirittura a socializzare. Tanti sono però gli inviti che abbiamo declinato. Per il bene di tutti.

Uno dei medium del tuo successo è stato probabilmente Facebook: che significato gli dai?
Facebook è stato il continuo logico e naturale della nostra giovanile militanza underground. Fumetti per pochi, dati in pasto a tutti, gratuitamente. È servito a dimostrare che non esistono fumetti per qualcuno, che le storie, anche quelle più assurde, sono per tutti. Il pubblico non ha bisogno di essere accudito e tutelato, è capace di comprendere tutto, se ben raccontato. Anche i temi più delicati. E poi, per ultimo, il pubblico è capace di farsi i muscoli, di crescere. Facebook ci ha provato questo.

Qual è la situazione del fumetto in Italia? In termini di pubblico, spazi editoriali, qualità stilistica e temi trattati, capacità di scavare e gestire le contraddizioni invece di evitarle, è possibile tracciare differenze con epoche passate?
Il fumetto, come mezzo, è finalmente esploso. Impossibile tornare indietro. È ora una delle Belle Arti. Ha tanti problemi, è vero, ma chi non ne ha? È un mezzo economico, che ha la possibilità di raccontare cose complicate in maniera semplice. Il balletto che avviene al suo interno, tra la scrittura e il disegno, è qualcosa di troppo commovente e utile da non coinvolgere tutti.

Veniamo alle fonti di ispirazione. Cinema, letteratura, arte…scegli tu.
Tutto. I fumetti, i libri, i film, il teatro, la poesia. Ma sopratutto gli spettatori. Sono fonte di ispirazione chi legge i fumetti, chi legge i libri, chi guarda i film, chi va a teatro, chi legge poesie. Anche chi legge i film e chi guarda i libri. La realtà, in tutte le sue manifestazioni, è troppo interessante per non esserci utile. Anche questa intervista ci è di ispirazione.

Da martedì gli Scarabocchi approdano in prima pagina sul manifesto. Noi siamo molto contenti, tu?
I miei personaggi non stanno più nella pelle.

Ti sentirai spinto a calibrare gli Scarabocchi, a settarli su quelli che in Italia si pensa siano lettrici e lettori del manifesto (over 60, classe medio-alta, molto ideologici, poco ironici, nostalgici del partito, qualsiasi fosse)? Possiamo assicurarti che la nostra comunità è molto più variegata di come ci disegnano.
I miei personaggi fanno quello che vogliono, sono autonomi, impossibile per me settarli. Ci sorprenderanno.

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