Mai Yoneyama, la gentilezza dello sguardo
Incontro La giovane giapponese ripercorre le fasi della sua già lunga carriera di artista, animatrice di successo
Incontro La giovane giapponese ripercorre le fasi della sua già lunga carriera di artista, animatrice di successo
«Come artista sono stata parecchio influenzata dai manga, dagli anime e dalle illustrazioni giapponesi. Perciò, amandoli tutti quanti, direi che posso definirmi come una persona che sta cercando di creare un nuovo genere.» Così si presenta Mai Yoneyama: animatrice e illustratrice, giovane ma già un nome in Giappone – e fuori – per il suo lavoro in diverse produzioni anime, tv e film (per esempio, Kill la Kill e Promare).
L’abbiamo incontrata per farle alcune domande a Tokyo, alla sede della casa editrice PIE International, alle prese con i postumi della sua mostra più grande finora, Eye, e con la promozione del suo art book omonimo, pubblicato proprio dalla PIE International (nel 2024 dovrebbe uscire per il mercato europeo). Con noi, a fare da interprete competente e appassionato, Francesco Pantò.
Ci racconti di quand’eri bambina?
Quando avevo circa tre anni, i miei genitori mi hanno comprato dei video di Sailor Moon, inoltre a casa mia c’erano i manga di Osamu Tezuka. Quindi, fin da allora ho adorato i disegni ed ho iniziato a creare dei miei libri.
Il disegno per me è stata un’esperienza davvero formativa.
Ci sono stati degli autori che agli inizi ti hanno ispirata?
Sì, anche se, ovviamente, da bambina non sapevo chi fossero gli autori di quelle opere (risata). Comunque, direi l’anime di Sailor Moon, e come mangaka Naoko Takeuchi e Yoshihiro Togashi. Di conseguenza, al tempo della scuola elementare volevo diventare una fumettista, anche se poi mi sono resa conto di non essere capace a realizzare manga. Non ho il talento necessario! (risata). A ogni modo, sempre parlando di fumetti, mi ha parecchio ispirata il mangaka Takeshi Obata. Lui realizza pure parecchie illustrazioni, perciò i suoi disegni non mi hanno lasciata indifferente. Un altro fumettista per me importante è stato Shou Tajima, l’autore del manga MPD Psycho. Mi sono appassionata moltissimo al suo lavoro. Ho osservato attentamente i suoi disegni. Per farlo, compravo delle riviste con più storie e lì c’erano anche i lavori di diversi animatori; erano tanto bravi da lasciare a bocca aperta! Animatori come Hiroyuki Imaishi, Yo Yoshinari e Sushio. Su quelle pubblicazioni c’erano i disegni di davvero tante persone ed erano, come dire, minuziosi, molto esplicativi o altro. Poi, Koji Morimoto. Durante la scuola media sono stata parecchio influenzata da lui.
Quando hai cominciato a consolidare la tua visione ci sono state persone che ti hanno influenzata o incontri per te importanti?
Fin dal principio mi sono sempre piaciute le illustrazioni, ma quando ho dovuto scegliere la mia strada ho deciso di diventare un’animatrice. Gli animatori, più che esprimere le proprie opere, realizzano gli anime in gruppo, come degli artigiani. In seguito ho smesso di occuparmene, ma gli animatori più anziani di me della casa di produzione Gainax, dove per un po’ sono stata impiegata, ovvero i già citati Yo Yoshinari, Sushio, Hiroyuki Imaishi, Atsushi Nishigori e gli altri, mi hanno influenzata non poco. Il mio gusto nel disegno, il modo di muovere le figure, il realizzare una composizione che sia facilmente comprensibile da chi l’osserva, rendere chiari e distinguibili linee e colori, tutti questi elementi in me sono cambiati progredendo. A partire dai diciannove anni sono diventata sempre più brava (risata).
In pratica, hai sviluppato un tuo stile?
Proprio così! Comunque, non ero un’autrice. In quel periodo ho migliorato le mie qualità come artigiana. Ero presa da quello.
I tuoi primi libri sono delle dojinshi (fanzine) o simili, come l’art book «ING» con il suo tratto particolare. Ultimamente, rispetto ad allora, il tuo modo di disegnare sembra essersi evoluto…
In effetti sì. Ho smesso di essere un’animatrice quando ho riflettuto sul creare un mio stile autoriale e mi sono accorta che in precedenza non ci avevo mai pensato seriamente. Non sapevo che cosa avrei dovuto fare. Ho meditato su come avrei potuto esprimere me stessa, e in quel momento non ho potuto ignorare gli elementi imparati con gli anime: il dinamismo, il punto dove indirizzare lo sguardo, o il montaggio. Ho voluto inserirli nei miei disegni. Se si parla d’illustratori nati nel campo dell’animazione, è impossibile non citare Yoshitaka Amano. Sebbene i suoi lavori presentino degli elementi tipici degli anime, contengono pure degli aspetti artistici, e mi sono serviti tantissimo come riferimento.
Il tuo art book più recente è «EYE» edito dalla PIE International. Si può dire che rappresenti il frutto del tuo lavoro finora?
Sì, è vero. Tornando poi al discorso di prima, la consapevolezza che gli spettatori guardano i prodotti d’animazione fa sì che gli anime siano resi in modo comprensibile, e con una chiara distinzione tra le linee e le parti colorate. Quella che secondo me fa una buona animazione è, diciamo, l’essere gentile nei confronti dello spettatore, quindi rendere l’opera semplice da interpretare.
Un termine di paragone può essere il senso compositivo posseduto da un cineasta come Yasujiro Ozu, perfetto e pensato con attenzione. Sembra semplice, ma in realtà non lo è per nulla. Avere fiducia in sé e realizzare dei propri film penso sia qualcosa di fantastico.
Quanto a me, ritengo che la mia sia una tecnica acquisita tramite una lunga riflessione. Dal momento che ora sono consapevole che le persone ne percepiscono la qualità, posso dedurne di aver tratto la mia forza dalla facilità di comprensione delle linee tratteggiate.
Durante la realizzazione di «EYE» immaginiamo che, all’inizio, ci fossero molte più illustrazioni, ma che tu poi abbia fatto una selezione. Su cosa ti sei basata per questo processo?
Esatto! Una selezione. In pratica, in questo art book ho pubblicato solo opere originali. Nella mia carriera ho realizzato il doppio delle illustrazioni presenti nel libro. Quanto al concetto stesso alla base della scelta, è stato quello di esprimere una mia originalità ottenuta attraverso le varie esperienze lavorative attraverso cui sono passata. Inoltre, ho dato importanza alla «serie storica», ossia ad un’analisi del processo tramite il quale ho ottenuto le caratteristiche dei mie disegni e a come questi siano cambiati nel corso tempo. Ho la sensazione che da concreti essi siano diventati più astratti.
Nelle tue illustrazioni sono ricorrenti molte figure di donne e contrasti tra colori freddi e caldi. Perché queste scelte?
Anche in questo caso è stata forte l’influenza di Sailor Moon, di cui parlavo prima. Nei miei disegni compaiono trasformazioni di eroine e proiezioni del sé sui personaggi, ma ci sono anche luci e ombre. Nell’intensità del contrasto ho l’impressione che si trovi la profondità di un’opera. Inoltre, mi sono ingegnata nel realizzarle come fossero delle scene, ma non di una vita quotidiana piatta, dove tutto è illuminato in modo uniforme. Gli esseri umani hanno la forza di percepire la luce e l’oscurità, e tutti, nella vita quotidiana, sperimentiamo degli eventi drammatici. Ho cercato di replicare questo. Ci ho proiettato esperienze, trasformazioni di sé stessi e desideri: perciò, mi sono ulteriormente chiesta, nel caso che le scene degli anime fossero trasportate nel mondo in cui noi viviamo, quali tipi di emozioni avrebbero suscitato. Ecco, questo è quello che ho cercato di riprodurre. I miei disegni sono come la realtà nel modo in cui io stessa la percepisco.
Che differenza trovi tra l’animazione e l’illustrazione?
Nel caso delle illustrazioni o dell’arte si cerca di vedere quanto si riesce a esprimere sé stessi. È importante la propria personalità. Invece, nell’animazione, si lavora insieme a molte persone. A essere importanti, al contrario, sono gli spettatori, la storia e che l’opera sia comprensibile al pubblico. Si fa in modo di non inserire elementi superflui. Insomma, il fatto che sia semplice da vedere e da comprendere diventa un fattore essenziale. Quando mi sono occupata di animazione, questi concetti mi sono stati instillati con forza dagli animatori più anziani, perciò li ho molto presenti. L’aspetto artistico se c’è va bene, certo, ma più di quello, ritengo che l’importante sia comunicare agli spettatori i contenuti, far sì che per loro quell’anime diventi un ricordo prezioso.
Hai collaborato alla realizzazione di video musicali come «Yoku» per il cantautore Eve. È stato difficile realizzarlo? Qual è il rapporto tra animazione e musica?
Sì, è stato difficile! Solo che, nel caso di Yoku, ci sono stati un progetto, una storia, la realizzazione dei disegni e la musica. Quest’ultima, è stata composta in un secondo tempo. A dire la verità, sono stata io a dire che in un certo momento avrei voluto che la musica si sviluppasse con una determinata atmosfera. Questo è un modo di lavorare piuttosto inconsueto. In genere, tutti animano le scene d’azione seguendo il ritmo della musica in modo da armonizzare il movimento per fornire il massimo impatto possibile, ma in questo caso l’animazione, più che essere influenzata dalla storia, è stata qualcosa di simile alla danza.
Pur essendo ugualmente immagini, un prodotto pubblicitario come un video musicale e l’animazione sono, in effetti, due cose differenti. Tutti e due hanno una propria difficoltà, però ho trovato molto interessante il poter lavorare su entrambi.
Anche la pubblicità della bevanda Calpis era qualcosa di ancora diverso?
Sì anche quella è stata un mezzo ancora differente (risata).
Riguardo il tuo futuro, quale strada pensi di percorrere? Quella di animatrice o di illustratrice?
Ciò che ora voglio fare più di ogni altra cosa e dedicarmi ancora alle illustrazioni e organizzare delle mostre dei miei lavori, ma desidero anche tornare all’animazione. Come regista, vorrei portare in animazione ciò che adesso riesco a esprimere nelle mie illustrazioni, così da creare qualcosa di totalmente differente. Penso di riuscire a inserire negli anime qualcosa che prima non sono riuscita a introdurre, e che non si è mai visto prima.
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