La Settima Sinfonia di Gustav Mahler comincia dove finisce la Sinfonia Pastorale di Beethoven, che ne costituisce una sorta di sottotesto. Entrambe le sinfonie sono divise in cinque tempi. La tempesta che sconvolge la Natura quasi al centro della sinfonia beethoveniana (in realtà al quarto posto) occupa in Mahler proprio il centro ed è un valzer demoniaco. L’attacco, in Mahler, non è un idillio, ma una marcia funebre.

LA PREGHIERA di ringraziamento che conclude il percorso musicale beethoveniano è sostituita in Mahler da un isterico canto di esultanza che non riesce a mascherare il dolore patito. Viene in mente La quieta dopo la tempesta di Leopardi. Il dolore non conosce consolazione, è banale, ovvio, «naturale», come tutto ciò che accade in natura, nella Notte della Natura. Se si entra in questa visione tutti i problemi interpretativi che ha posto questa sinfonia si dissolvono.
Il finale non è sforzatamente magniloquente, vanamente propositivo, come vorrebbe Adorno: è una confessione d’impotenza. Il male, il dolore sono insiti nell’esistere, gioia, sollievo non possono essere che parentesi o, peggio, finzioni. Pappano sembra indicarci proprio questa via: lo slancio del secondo tema nel primo tempo è estenuato, quasi sfibrato. L’acre sarcasmo dello scherzo è un valzer che ingoia sé stesso, gira a vuoto. La serenità dei due notturni è fragilissima. Tutta la sinfonia è da Pappano penetrata negli spasimi dei timbri (bravissimi gli assoli dell’orchestra), nell’afflato fragile di melodie che non si completano. Tutta la sinfonia ci appare come un grido che non riesce a gridare, un’implorazione di clemenza inascoltata. L’inesorabilità della Natura è l’unico destino concesso all’homo sapiens, come a tutti gli altri viventi. Un nichilismo perfetto, che di lì a pochi anni la prima guerra mondiale avrebbe confermato. E che l’Europa di oggi non sembra smentire. Quasi dieci minuti di ovazioni trionfali hanno giustamente premiato un’interpretazione incandescente, indimenticabile di questa terribile sinfonia.